La Stampa, 13 maggio 2024
Così nacque Emergency
MILANO
«Tanti della nostra generazione, che è poi la generazione del ’68, hanno fatto molte parole e pochi fatti. È un po’ il problema dei partiti politici: all’inizio la gente crede alle promesse, ma poi se non succede nulla si allontana. La forza di Emergency è stata quella del fare». Ennio Rigamonti, 74 anni, è uno dei volontari e degli storici soci della Ong fondata da Gino Strada e dalla moglie Teresa Sarti il 15 maggio del 1994 durante una serata al ristorante milanese “Il Tempio d’oro” di via delle Leghe. Dopo trent’anni Emergency ha uno staff di 3.383 persone, ha lavorato in 20 Paesi e ha curato gratuitamente oltre 13 milioni di pazienti. Rigamonti c’era quando negli anni Ottanta il giovane chirurgo partì per la sua prima missione a Peshawar con la Croce Rossa («Al ritorno decise che non avrebbe più scattato fotografie, che prima erano una delle sue passioni»), c’era dopo l’11 settembre del 2001 quando Gino Strada chiamò in diretta l’ambasciata italiana da una Kabul spettrale per far arrivare alle truppe americane il messaggio che dove c’era la bandiera con la E cerchiata di rosso c’era un ospedale e c’era anche nel 2010 quando tre operatori di Emergency furono arrestati con l’accusa infondata di aver nascosto armi nella cucina del centro di Lashkar Gah.
Rigamonti, qual è il suo primo ricordo di Gino Strada?
«Le serate alla bocciofila Garibaldi di Sesto, l’ex Stalingrado d’Italia, 80 mila abitanti di cui 60 mila metalmeccanici. Era uno dei punti di ritrovo della sinistra extraparlamentare, ma in realtà il nostro era un gruppo intergenerazionale: c’eravamo noi del Movimento studentesco, vecchi militanti del Pci, cattolici. Gino giocava anche a bocce. Era bravino, come suo zio. Venivano anche la Tere e la piccola Cecilia».
Emergency nacque in una bocciofila?
«Si cazzeggiava, ma si discuteva sempre anche delle cose ingiuste che avremmo voluto cambiare. Avevamo una forte matrice operaista. Parlo di principi che ci hanno segnato e che ci hanno anche tenuto insieme: la solidarietà, l’idea che il successo fosse legato a ciò che di buono si realizzava per l’intera comunità. Nel 1994 Gino andò in Rwanda dove era scoppiata la guerra civile con un gruppo di sei o sette persone. Iniziammo così. Poi partì la campagna contro le mine antiuomo».
Chi furono i primi a darvi una mano?
«Milly Moratti e suo marito Massimo raccontarono a Milano chi eravamo e cosa facevamo. Poi ricordo la sera in cui Gino andò in Tv: dopo aver messo a letto mio figlio stavo guardando una telecronaca dell’Nba di Dan Peterson, girai sul Maurizio Costanzo Show in tempo per veder passare il mio numero di casa mia come sottopancia. Il telefono cominciò a squillare finché alle 3 del mattino, stremati, inserimmo la segreteria telefonica. Il giorno dopo chiamammo la Telecom per mettere quattro linee».
Gino Strada è stato ovunque. Se fosse ancora vivo oggi sarebbe in Ucraina o a Gaza…
«Il problema delle guerre è che quando scoppiano ormai si può fare molto poco. In Ucraina presto partirà una missione di Emergency per fare medicina di base. Quello che sta succedendo a Gaza, invece, è qualcosa che va al di là della peggiore delle guerre. Stiamo provando ad andarci, ma finora è stato impossibile».
Qualche compromesso in trent’anni l’avrete pure accettato, oppure no?
«I nostri interventi nelle zone di guerra si basano sempre sull’accettazione della nostra presenza da parte di entrambi i contendenti. Più che le “safe house”, oggi molto di moda, l’unica garanzia per la sicurezza dei pazienti e degli operatori è che tutti sappiano bene chi sei e cosa stai facendo. E che ti rispettino. In Afghanistan abbiamo curato tutte le parti in conflitto, gli unici che non hanno portato i loro feriti da noi semmai sono stati gli eserciti occidentali».
Qual è stata l’esperienza più complicata?
«Tutte le cose sembrano complicate prima di farle, non dopo che le hai fatte. Ci chiedevamo perché fondare un’altra Ong e ci siamo risposti che c’erano posti in cui non andava nessuno e che quindi era giusto che qualcuno ci andasse. La nostra impostazione, cioè il voler riaffermare dei diritti fondamentali a cominciare da quello alla salute, è stata percepita dalla gente».
Ha mai detto a Strada “adesso fermati”?
«No, non era possibile. Tanto sapevo benissimo che se lui aveva deciso di fare una cosa l’avrebbe fatta comunque. Le nostre discussioni non erano mai su cosa fare, ma su come farlo. E quasi sempre aveva ragione Gino». —