La Stampa, 13 maggio 2024
I gol della speranza
È il vecchio campo del “Pertusa Millefonti”, spogliatoio 12, periferia sud di Torino. È qui che si allena la squadra della gioia.
Ecco il capitano, Riccardo, 13 anni, centravanti, operato due volte al cervello: «Mi ispiro a Belotti». Ecco Gaia, che arriva con la maglietta granata già addosso: «Mister, scusa tanto, ma domenica rischio di fare tardi per la partita». Il mister, un gigante con gli occhi rossi, l’abbraccia: «Tu pensa ad arrivare. Fai il riscaldamento in auto. Appena ti vedo, ti butto in campo». Ventisette giocatori. Ventisette ragazzini. Maschi e femmine. Hanno tre cose in comune: una diagnosi di tumore, una cura efficace e questa squadra che tremare il mondo fa.
«Loro mi danno tutto quello che non trovo più – dice l’allenatore Marco Morra -. Sorrisi, serenità, emozioni. Tutte quelle cose che non puoi comprare». Il veterano della squadra si chiama Federico Vottero, 22 anni, di mestiere parrucchiere: «In campo gioco sulla fascia, sono un’ala sinistra. Anche a novembre del 2016 mi stavo allenando – all’epoca ero nel Cumiana – quando il polpaccio mi ha fatto un male strano. Era una massa grande come un pugno. Sarcoma alveolare al polpaccio destro. Ho fatto tre cicli di chemio, mi hanno operato il 14 giugno. Mi hanno tolto tutto, anche il gemello. L’ho vissuta bene, mi sono affidato ai miei genitori e ai dottori. A ripensarci, lo considero l’anno più bello della mia vita. Sono tornato in campo ad agosto di quello stesso anno con una stampella, avevo ancora cinque punti. Ora gioco solo in questa squadra, sono il più grande. Sono fra i sette fondatori».
È una squadra senza padroni. Una squadra che può giocare con tutti i moduli e contro tutti gli avversari. Ma si regge su tre pilastri: il reparto di oncoematologia pediatrica dell’ospedale Regina Margherita diretto dalla dottoressa Franca Fagioli. L’Ugi – l’unione dei genitori italiani contro il tumore dei bambini – che accompagna i ragazzi lungo tutto il percorso e fino a questo campo. E poi il Torino Football Club, il Toro insomma: attrezzatura, allenamenti, tornei. L’ultimo dei quali, in Sardegna, è stato un viaggio bellissimo.
L’allenatore Marco Morra, di mestiere capo scout del Torino, è un tipo che parla così: «Io sono uno che arriva dalla Curva Maratona. Ho dormito al Filadelfia con mio figlio di 2 anni quando volevano abbatterlo. Sono nato granata, sono andato a piedi a Superga il giorno dello scudetto e mio zio mi fece togliere le scarpe lungo la salita. Ecco, io penso che questa squadra di ragazze e ragazzi c’entri con il calcio più di ogni altra squadra di calcio. C’entra con il Torino, per come lo penso io. Noi non stiamo con il potere, ma con il popolo. C’entra con il senso di quello che dobbiamo fare. Siamo diventati una famiglia. Sono in contatto come il polo oncologico di Pisa e con quello di Firenze. Il mio sogno è portare questa squadra a giocare a Coverciano, nella casa della Nazionale».
Lungo il campo, dietro la rete di protezione, non sentirete volare una bestemmia. Niente urla o maledizioni. Nessuno si incazza con le scelte del mister. Sono genitori che sorridono, come Roberto Reddavide, commesso in un supermercato: «Siamo qui dopo aver superato la malattia di mio figlio. Lui è quello là, piccolino, con gli occhiali da sole. Mi dispiace usare parole forti: ma per noi è stata una guerra. Siamo fortunati a stare in questo gruppo. Gli esami vanno bene. Sono tre anni che vanno bene. Quello laggiù, vicino alla panchina, è il dottor Asaftei, il nostro angelo sulla terra. È lui che ha azzeccato la cura. È lui che ha donato la seconda vita a nostro figlio».
Il dottore Sebastian Asaftei, 48 anni, origini romene, cerca di non perdersi nemmeno un allenamento. Insieme al dottor Daniele Bettin, segue i ragazzi anche durante i tornei. «Era il 2018. Dall’Istituto dei tumori di Milano ci è arrivato l’invito a un torneo. Abbiamo avuto 45 giorni per mettere insieme la squadra. Ora, nel mio lavoro mi capita spesso, quando bisogna iniziare la chemioterapia, di dover rispondere a questa domanda: “Quando potrò tornare in campo?”. Rispondo: “In un tempo compreso fra sei mesi e due anni”. E io lo vedo il loro distacco, come si chiudono». Con quel torneo, invece, accadde il contrario. «Abbiamo visto ragazzi pazzeschi. Di colpo estroversi, che legavano immediatamente. Insomma: abbiamo visto che il calcio poteva fare parte del percorso di cura». Così ora è il momento della foto sociale. È la squadra “Ugi”. È la loro squadra.
In panchina c’è un team manager d’eccezione. Silvano Benedetti, ragazzo del Toro, campione del Torino. «Qui c’è una purezza che ti fa capire tutto».
Capisci, per esempio, l’amicizia. Come la spiega bene il centrocampista Mohamed Hadiry, studente di Biotecnologie all’università di Torino: «Nel mio caso è stata una leucemia linfoplastica acuta con una variante rara. Ma noi non siano riuniti dalle nostre malattie, molti non sanno neppure quello che hanno avuto gli altri. Noi siamo riuniti dalla nostra voglia di stare insieme. La nostra malattia è stata un ponte per creare questa amicizia». Il gioco del pallone, che potenza. «Il giorno più felice è stato quando sono tornata nella mia squadra, è uscito persino un articolo sul Biellese. Perché quel giorno ho persino segnato: ricordo l’abbraccio dei compagni e pure del pubblico».
Pioviggina. Ogni tanto un pallone sbatte contro la rete. Odore di sugo dai palazzi intorno al campo. È quasi estate. È quasi ora di cena quando il mister organizza la partitella prima della fine dell’allenamento. Marco Morra si avvinca alla panchina e dice: «Dopo un allenamento così, io potrei scalare l’Everest senza mascherina. Sembra che siamo qui a dare la nostra disponibilità, ma in realtà veniamo a prenderci questa gioia enorme».
La squadra della gioia ora si schiera in campo. Sulla fascia sinistra sta per involarsi Federico Vottero, il veterano. Cosa sogni per la tua vita? «Migliorami. Migliorarmi nel mio lavoro. Migliorami sempre». Poi fa uno scatto, uno stop, una finta e tira. —