Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  maggio 13 Lunedì calendario

Non è un gioco da ragazzi. Il nuovo saggio di Stefano Bartezzaghi

Siamo noi a parlare di sport o è lo sport a parlare di noi? È vera la seconda. Basti pensare a come ormai l’agonismo sia l’epicentro della nostra visione della vita. Modellando i valori, gli atteggiamenti, il senso comune di un mondo sempre più competitivo. E impadronendosi perfino della lingua. Che si tratti di economia o di politica, di lavoro o di tempo libero, di logos, di ethos e soprattutto di eros, le metafore dominanti, le espressioni e i modi di dire più correnti provengono dall’immaginario agonistico. Un concorso universitario assomiglia a una corsa a ostacoli. Per avere successo nella carriera professionale è utile partire in pole position. Purché il nostro avversario non faccia catenaccio. O si salvi in corner. O ci mandi al tappeto. Per realizzare rapidamente i nostri score è importante sfruttare gli assist di controbalzo. Insomma, lo sport è diventato una forma trasversale dell’essere che apparenta strettamente gioco e guerra. A dirlo è Stefano Bartezzaghi nel bellissimo Chi vince non sa cosa si perde. Agonismo, gioco, guerra, appena mandato in libreria da Bompiani.
L’autore mostra le metamorfosi dell’agonismo in tempi e società diverse. Dai giochi atletici che impegnano gli eroi omerici in duelli allo spasimo, dove la gara è tanto cruenta da assomigliare a un succedaneo del conflitto armato. Alla nostra civiltà dove la guerra, sempre meno fisica e sempre più elettronica, si nasconde spesso dietro la maschera ingannevole del gioco. Fino ai videogiochi e giochi di ruolo che rappresentano un grande tornante della storia ludica. In quanto la tecnologia digitale aumenta il grado di immersività e di realismo. Ma al tempo stesso la dimensione virtuale derealizza la cornice materiale, il cosiddetto terreno di gioco, in quanto con il nostro smartphone possiamo giocare ovunque e con chiunque. Andando al di là delle colonne d’Ercole spaziali e temporali. Ma anche di quelle strumentali e situazionali.
I nostri device, infatti, sono contemporaneamente ferri del mestiere, mezzi di comunicazione e appendici ludiche, al punto che i pc e poi i cellulari hanno nelle dotazioni di base un certo numero di plays. E molti videogame sono talmente assorbenti e distraenti da avere bisogno cosiddetto Panic Button, un pulsante che mette in pausa il videogame se il nostro capo entra improvvisamente nella stanza mentre giochiamo invece che lavorare. E fa apparire un file preordinato dall’utente.
Secondo Bartezzaghi, l’attività ludica e quella bellica hanno in comune la vis agonistica, il desiderio di vincere, di prevalere sull’altro. Anche se tra tutti i giochi la guerra è l’unico in cui entrambi i giocatori perdono. Anche perché tende per natura all’escalation e alla deregulation del conflitto. Mentre l’essenza del gioco, agonistico o no, è proprio la regola. La convenzione che crea un altro ordine. Ricomponendo le tessere della realtà come si fa con i mattoncini del Lego. È quel che fanno i bambini e adulti quando reinventano il mondo assoggettandolo alle regole del gioco. E così imparano ad assoggettarsi al gioco delle regole.
E se è vero che la nostra esistenza è fatta di norme e istruzioni da imparare, da seguire, da rispettare, da interpretare, allora il gioco rappresenta l’essenza della realtà allo stato puro, la vita ridotta alla sua grammatica. Ogni volta che giochiamo, proprio nel momento in cui enunciamo le regole, ricreiamo di fatto il principio attivo del legame sociale allo stato nascente. Stabiliamo quel che si può e quel che non si può fare, decidiamo il confine fra lecito e illecito, tra il bene e il male. Il nostro “giochiamo a”, o il “facciamo che io ero” dei bambini, ci fanno assaporare il gusto pieno della vita, ci offrono l’illusione preziosa di un mondo dove la legge è davvero eguale per tutti. Una meritocrazia dove il successo è di chi se lo guadagna, con appena un pizzico di fortuna. Proprio come nei sogni e nelle utopie, tutto è come deve essere e il caso non è mai lasciato al caso.
Ma nel mondo contemporaneo, dove ogni cosa è business e competizione, questo confine tra la lealtà ludica e realtà quotidiana è sempre più sfumato. Ecco perché la società della performance, fondata sulle hit e sulle classifiche ha trasformato la vittoria, che rappresenta il fine e la fine del gioco, nell’identificazione di un carattere, di una qualità sociale, la cosiddetta “mentalità vincente”.
Ma in questo modo l’agone perde la sua funzione originaria, che consiste nell’assegnare volta per volta la palma della vittoria. Perché vincenti o perdenti lo si è già prima di misurarsi. Così l’agonismo oblitera la sua imprevedibilità originaria. E anche la sua credibilità. Dal momento che il peso delle componenti esterne, l’economia, la politica, lo showbiz, insomma il gioco delle forze sociali, fa saltare la cornice ludica che garantisce la verità del gioco. E lo trasforma in una simulazione su cui nessuno si fa troppe illusioni. L’esatto contrario della parola illusione che deriva dal latino in ludere, cioè volgere qualcosa in gioco. È proprio questo disincanto il prezzo che pagano tutti. Perfino chi vince. Che non sa cosa si perde.
Il libro – Chi vince non sa cosa si perde di Stefano Bartezzaghi (Bompiani, pagg. 272, euro 19)