Il Messaggero, 13 maggio 2024
L’Italia dei figli unici
Sua maestà il figlio unico non è poi così solo. Circondato da tanti altri “re soli” al centro di mini regni familiari che scelgono di fermarsi alla prima discendenza. Modelli sociali che alla lunga rischiano di modificare i modi di essere individuali ma soprattutto il tessuto intrinseco dei Paesi. Bisogna partire dai numeri. I dati Eurostat, inequivocabili: in Europa il 47% delle famiglie ha figli unici e l’Italia è addirittura al 52% con il tasso di fecondità più basso (1,4%). In media le donne italiane diventano madri a 31,6 anni, anche le straniere si stanno uniformando il che suggerisce una lettura variegata del fenomeno. Non solo fattori economici, scarso sostegno alla genitorialità, mancanza di “welfare familiare” ma cambiamenti culturali e di stile di vita, dettati da esigenze personali, ansie, paura del futuro, anche egoismi, dietro un “mal di bambini” dalle molte sfaccettature. Come anche le interpretazioni degli esperti, divisi sul vecchio stereotipo del figlio unico destinato a essere solitario, viziato, egoista, al centro di troppe attenzioni.
STEREOTIPI
Tutto dipende dai genitori. Dal loro vissuto, ma soprattutto da come decidono di “seguire” il figlio. Inevitabilmente le attenzioni sono maggiori, non bisogna dividere tempi, ansie, energie. Pensiamo ai papà a bordo di un anonimo campo di calcio, a quante aspettative possono riversare su quel bambino che vuol solo divertirsi e giocare. E alle mamme che sbirciano di continuo registri elettronici, app di parental control, cassetti e tasche. C’è chi ammette, deridendosi un poco: «Con il figlio unico spesso metti a tavola prima il secondo con il contorno e poi il primo perché anche se ha 16 anni ed è alto un metro e 80 hai paura che non mangi i nutrienti necessari». E ancora: «La notte a volte ti alzi e vai a vedere se respira; quando è piccolo compri il passeggino che gli permette di respirare meno smog e la cameretta in legno del Trentino per farlo dormire in un ambiente sano, il cibo rigorosamente biologico dilapidando stipendi». Altri seraficamente spiegano: «Un figlio solo ti dà più libertà, ricominciare con un altro vuol dire chiudersi in famiglia». Ma davvero le ricadute sono nefaste? Per il professor Renato Borgatti, neuropsichiatra infantile dell’università di Pavia e direttore del reparto di Neuropsichiatria infantile fondazione Mondino «il mito della sindrome del figlio unico viziato, prepotente, egocentrico» è stato ridimensionato dagli studi. «Sicuramente i bambini di oggi che crescono in una famiglia fatta di tanti adulti (genitori, nonni, zii) sono più esposti al rischio di esser caricati di aspettative. Una medaglia a due facce, sicuramente il sentirsi tanto amati e desiderati può avere un influsso benevolo, ma può far sentire il peso di dover raggiungere obiettivi che altri hanno scelto per lui, questo può creare ansia, paura di non essere all’altezza. Disturbi che emergono in adolescenza e che hanno a che fare con il fallimento di questo ideale di perfezione». Altro aspetto è la solitudine. «Sono al centro di tante attenzioni ma paradossalmente tanto soli, in nuclei dove i genitori o sono avanti con l’età e non hanno più procreato o investono molto sul lavoro». Insomma, non hanno a portata di mano un fratello per condividere sentimenti e litigi. «Tutto sta alla capacità dei genitori di favorire l’interazione con i pari e non l’isolamento attraverso scuole a tempo pieno e attività sportive o di gruppo. Soprattutto, abbassino le aspettative e comunichino un amore gratuito indipendentemente dai risultati». Difficoltà economiche o poca voglia, oltre la metà delle famiglie italiane ha un solo figlio. Più critica l’analisi di Emilio Franzoni fondatore dell’associazione a sostegno dei pazienti della Neuropsichiatria infantile, già direttore della Neuropsichiatria Infantile Università degli Studi di Bologna. «La società che sta bene economicamente tende ad avere un figlio, a volte neanche uno. La definirei un po’ egoista. Ma se i nostri figli sono pochi non ci riservano un futuro capace di andare verso una comunità. Il figlio unico spesso viene messo su un altare, se va male a scuola i genitori vanno a brontolare». Il rischio di fomentare sentimenti di prepotenza e onnipotenza c’è. «Un figlio rappresenta una grossa preoccupazione ma anche un impegno delegato alle scuole, come se l’educazione non partisse dall’interno delle famiglie. Certo da uno solo ci si aspetta di tutto, ansie e aspettative sono maggiori».
LA QUALITÀ DELLA VITA
Assodate le motivazioni economiche, lavorative, il fatto che i figli si fanno più tardi e l’orologio biologico purtroppo scade per Annamaria Staiano presidente della Società italiana di pediatria pesa anche «un atteggiamento culturale dovuto a un crescente apprezzamento per la qualità della vita rispetto alla quantità di figli. Le famiglie sono motivate a concentrare le risorse su un figlio solo per garantirgli le migliori opportunità. Possono risentire della mancanza di interazioni sociali tipiche dei fratelli, possono essere più inclini a sviluppare ansia o problemi di autostima ma non ci sono conclusioni definitive. Potrebbero imparare a essere più indipendenti. Possono sentirsi più responsabili del benessere dei genitori anziani». Insiste sul fattore economico Giorgio De Rita, segretario generale del Censis: «Il secondo figlio aumenta notevolmente il rischio di uno scivolamento verso la povertà. Si fa un figlio per dare un senso alla famiglia e ci si ferma, perché i figli costano tanto». C’è poi il tema dell’età media delle donne al primo figlio: «Continua a crescere, intorno ai 32 anni, e si fatica a metterne in conto un altro. Ma punterei l’accento sul clima di crescente preoccupazione per il futuro dettato da una mancata crescita in termini di economia e salari. Fare un figlio per gli italiani è un salto nel buio e un paese che ha paura del futuro non li fa». Indubbio come il ruolo delle donne abbia un peso non indifferente. «Giustamente – interviene Giulia Maffioli, presidente Associazione nazionale psicologi psicoterapeuti – puntano prima a raggiungere una posizione professionale, ciò comporta un’età più avanzata e un aumento dell’infertilità. Hanno un peso anche le separazioni precoci. Oppure quel che sta emergendo purtroppo è quanto la gravidanza può risultare un momento non vissuto in serenità. Il parto, prima visto come qualcosa di normale, ora suscita ansie esagerate». Quanto al figlio unico potrebbe esser diventato «l’obiettivo per raggiungere una identità sociale. Ma non è corretto parlare di sindrome del figlio unico, nella vita contano le esperienze e i modelli genitoriali. Un’attenzione specifica può essere positiva ma può avere ripercussioni, ansie, difficoltà di relazioni. Ma tutto dipende dai genitori. Di contro sono più autonomi e sanno stare più facilmente da soli».
LE TESTIMONIANZE
«Essere genitori di un figlio unico che vuol dire? – dice Francesca Mattozzi – Le ansie sono concentrate su di lui. Tutte le prime volte che fanno qualcosa c’è maggiore attenzione, ma credo che tutti abbiamo la stessa cura per i figli, certo con più di uno si può mollare su qualche fronte. In linea di massima non siamo così ansiogeni. È un bellissimo rapporto quello uno a uno. Del resto ha deciso madre natura il secondo figlio non è arrivato, ci abbiamo provato e riprovato. Ma è andata così». Angelica, 16 anni, la diretta interessata conferma: «Io sto bene così. Da piccola volevo una sorellina, ora no, ci ho ripensato mi piace stare da sola con i miei genitori». Anche Silvia Mascioli si racconta con semplicità: «È stata una scelta legata a una condizione di salute, ho la sclerosi multipla, averne fatto uno è quasi un miracolo, ma è stata l’ultima delle problematiche legate al figlio unico a cui ho pensato. La cosa che mi ha spinto a lasciarlo figlio unico è stata che volevo dargli il massimo delle possibilità, poter far tutto, rispetto a una famiglia che deve dividere le spese per due figli. Facendo un lavoro su turni avrei dedicato meno tempo a lui, è stata una scelta ragionata, con il senno di poi, anche il mito dei figli unici viziati supercoccolati alla nostra mercé non è vero, le cose sono molto cambiate. Solo? Fa sport di squadra, è circondato da amici e compagni, sa condividere con gli altri e costruire qualcosa insieme, è l’unico ma non gira tutto intorno a lui».