Corriere della Sera, 13 maggio 2024
Intervista a Elio
Elio, che in realtà si chiama Stefano, a me ha sempre fatto pensare a uno stato d’animo e a un talento apparentemente opposti che quando, molto raramente, si incontrano, generano qualcosa di molto affascinante, molto poetico. Elio mi è sempre sembrato una persona molto malinconica, si vede dagli occhi, e però, al tempo stesso, mi appare dotato di una energia comica, di una fantasia irriverente, di un amore per il surreale capaci di regalare agli altri una allegria spensierata che forse non gli appartiene.
Lo incontro per parlare del tour estivo di Elio e le Storie Tese dal titolo devastante: «Mi resta solo un dente e cerco di riavvitarlo» e del Concertozzo, una lunga performance che si terrà, con il contributo del Trio Medusa, a Monza il 26 maggio.
«Sarà una festa, suoneremo dalle 15 a mezzanotte. È il terzo che facciamo, ospiteremo persone che ci piacciono, come il Trio, e soprattutto sarà musica dal vivo, gente che suona davvero sul palcoscenico, non autotune o diavolerie simili. Tutto reale, dal vivo».
E le tante dicerie sullo scioglimento della sua band?
«Ma no, ci piace scimmiottare i grandi gruppi che si sciolgono con facilità e poi magari fanno un’ultima tournée della reunion che dura dieci anni. Anche spaccare gli strumenti in scena, come faceva Jimi Hendrix, è una cosa che ci intriga. Lo abbiamo fatto. Prendevamo chitarre da poco e ne spaccavamo cinque insieme».
Elio, quanto è difficile oggi far ridere?
«Molto, non ci sono più occasioni, sembra sia ormai proibito farlo. Se succede, è come fosse apparsa la Madonna di Czestochowa. Ho fatto un programma, Lol. Lo abbiamo girato a settembre ed è andato in onda a Pasqua, neanche ricordavo di aver partecipato. La gente mi fermava per strada, come accadeva agli altri, e ringraziava perché l’avevamo fatta ridere. Come fossimo dei salvatori dalla tristezza incipiente. Un tempo ci si divertiva tanto. Negli anni Settanta c’erano il terrorismo, la droga, i sequestri. Eppure ridevamo come pazzi. Penso a quando nacque il Derby a Milano, alla vena di follia di chi lo frequentava. Guarda i nomi di chi c’era, solo a leggerli viene da ridere».
Cosa ti fa ridere oggi?
«Ora poco, sono tutti con il freno a mano tirato, impauriti dal Grande Tribunale Sempre Aperto dei social che tutto giudica e condanna, che sanziona tutto quello che si permette di uscire dai canoni prefissati, non si sa bene da chi. Non c’è mai stato un periodo così bigotto, così conservatore. Nell’arte e nella cultura non si devono mettere limiti, di nessun tipo. Bisogna sentirsi ed essere liberi di dire qualsiasi cosa. Così dovrebbe funzionare, in democrazia».
Quindi Elio non ride, si preoccupa solo di far ridere gli altri?
«No no, mi piace il surreale, l’assurdo. Ricordo quando scoprii Cochi e Renato, Jannacci. Mi sembravano precipitati da un altro mondo. Amo Mel Brooks, i Monty Python, anche Frank Zappa mi faceva divertire. Tra quelli di oggi mi fa ridere Lundini, ha quel tipo di comicità lunare, imprevedibile, che è ciò che amo di più».
Voi siete una strana combinazione, fate ridere ma curate molto la musica e scrivete belle canzoni. Un caso raro.
«Anche gli Skiantos erano bravi. Noi abbiamo avuto un successo lungo, che non sempre è una buona cosa, ci si può impigrire. Oggi sono molto contento proprio di quello che facciamo dal punto di vista musicale. Certo, abbiamo sempre cercato di essere unici nei testi e nella messa in scena. Ma credimi che la parte musicale è vitale, per arrivare integralmente al pubblico».
Voi fate uno spettacolo musicale che è quanto di più vicino al teatro. E non avete mai disdegnato aristocraticamente il grande pubblico.
«Siamo anche andati a Sanremo. Lo avvertivamo come un servizio pubblico da compiere. Sapevamo che esisteva un pubblico fatto di persone come noi e volevamo rappresentarlo. Una splendida minoranza. Poi però siamo arrivati due volte secondi. Con La terra dei cachi abbiamo rischiato di vincere, anzi forse avevamo vinto».
Ci fu persino una strepitosa indagine giudiziaria...
«Sono stato interrogato, ero molto orgoglioso di questo, e mi hanno chiesto cose sinceramente senza senso, tipo se Pippo Baudo avesse interferito sulla composizione della canzone. Alla fine dell’interrogatorio il carabiniere mi disse, off the record, che avevamo vinto noi, che erano state trovate schede sbianchettate. Giorgia mi disse che anche a lei avevano riferito la stessa ipotesi. Il mistero si infittiva. Ma non ci interessava. Eravamo andati lì per rompere le balle e ci eravamo riusciti».
Il giorno più brutto vissuto da te e dal gruppo credo di saperlo...
«Sì, quando è morto Feiez. Era davanti ai nostri occhi. Non so a quanti sia capitato di vedere morire così un amico, qualcuno con cui hai condiviso giorni, sogni, speranze, rabbie. Lui aveva 36 anni. Quando crollò, suonando, ebbi la sensazione che se ne fosse andato un pezzo di me, che nulla sarebbe stato più come prima. Accadde il 23 dicembre e ricordo l’atmosfera surreale di quei giorni, tra lutto e festa, con i doni e le cene mischiate alla morte di un tuo amico. Tutto surreale. Ma purtroppo tutto vero».
Il giorno più divertente, invece?
«La seconda volta al Festival. Ci eravamo travestiti da ciccioni, oggi verremmo giustamente condannati per body shaming, ma erano altri tempi e bisogna storicizzare tutto. Pensa che sono andato a sentire i Pagliacci di Leoncavallo e mi sono accorto che, quando Tonio viene offeso dalla bella, hanno cambiato la parola “gobba” in “schiena”... Comunque, imprigionati in quei costumi, non vedevamo l’ora di andare in bagno. Ma ci consegnavano tutti i premi possibili. Arrivati esausti al momento della classifica generale, abbiamo temuto di aver vinto. Non so se la nostra tenuta stagna ci avrebbe consentito di ritirare il premio...».
A proposito di incidenti, parliamo di quello del Primo Maggio 1991.
«Siamo sempre stati crudeli. Il Concertone del primo maggio già allora si stava trasformando in una specie di Festivalbar e allora noi decidemmo di combinare un po’ di casino. Il giorno prima si facevano le prove. Noi indossammo i panni dei bravi ragazzi, eseguimmo un repertorio classico. Ci fecero giurare che ventiquattr’ore dopo non ci saremmo mossi da lì».
Per quello avviasti l’esibizione dicendo «Depistaggio per il funzionario Rai».
«Esatto. Iniziammo un orrendo rap che raccoglieva tutte le informazioni pubblicate sui giornali in quel tempo su Andreotti, Cossiga, Ciarrapico. Era roba dura, che non piacque. Interruppero la diretta e diedero la linea a Vincenzone Mollica che intervistò Ricky Gianco. Io, quando arrivarono sul palco gli organizzatori per farci smettere, mi buttai per terra urlando “Come Jim Morrison!”. Poi ci siamo chiusi in camerino, che era una tenda, in attesa che accadesse qualcosa. Vedemmo arrivare dei carabinieri e ci dicemmo “Ci siamo”. Invece volevano una foto...».
Poi ci fu la rissa che scatenasti a «Night Express», da molti scambiata per autentica.
«Fu molto divertente. Simulammo una contestazione e io mi lanciai per regolare i conti con l’oppositore, tipo Trump oggi. Ma io scherzavo. Per anni tutti pensarono fosse vera. Ci divertivamo a creare situazioni di tipo futurista, volte a provocare reazioni nel pubblico. Ci piace che sia vivo, partecipi, abbia emozioni. Il mio incubo è vedere gente addormentata».
Prima del Concertozzo, il 25 maggio, voi incontrerete a Monza le associazioni dell’autismo. Un problema che ha fatto irruzione, con tuo figlio, nella vita della tua famiglia.
«Ce ne siamo accorti molto presto. È stata mia moglie a percepire delle anomalie nel comportamento di Dante. Io la consolavo, le dicevo che tutto si sarebbe normalizzato. Ma noi abbiamo due gemelli e le differenze, nel percorso di crescita, si vedevano nettamente. È stato difficile trovare qualcuno che sapesse farci una diagnosi chiara e che ci indirizzasse. Non esiste un numero di telefono a cui rivolgerti, un indirizzo dove andare. Ti rendi subito conto che l’autismo di un figlio si coniuga con la assoluta solitudine dei genitori. E questo vale per ogni tipo di disabilità».
Quali sono i segnali che avete avvertito?
«La prima cosa che vorrei dire ai genitori è che bisogna fare presto, non aspettare i tre anni, non rinviare. Noi abbiamo visto che Dante aveva un’attenzione ossessiva per le trottole, anche lui girava su sé stesso e non finiva mai di farlo. Aveva attenzione per le cose e non per le persone. L’autismo può portare gravi difficoltà relazionali, anche ritardi mentali, motori, cognitivi».
A chi avete chiesto aiuto?
«È tutto incerto, la prima reazione è lo sconforto. Sono sincero: è la paura, la disperazione. Manca tutto, credimi. Manca tutto. Manca un protocollo che una mamma e un papà possano seguire, che funzioni da bussola in quel maremoto. Devono cercare con il lanternino, da soli, nel dubbio di non aver trovato persone e soluzioni giuste».
Cosa pensi dell’idea di Vannacci a proposito delle classi differenziali?
«È un’idea vecchissima, superata dall’esperienza. Quello che fa bene è l’inclusione. È quello che deve accadere per portare benefici ai nostri figli. Bisogna che questi ragazzi siano aiutati a crescere insieme agli altri. Non separati. E questo fa bene a tutti, l’obiettivo è quello dell’autonomia e dell’indipendenza, per quanto possibile. Il percorso delle classi differenziali invece porta alla ghettizzazione».
Come sta Dante?
«Ora ha 14 anni, lui è consapevole. Anche troppo, lo dice continuamente. Ha fatto un lavoro impressionante, una fatica struggente. Anche in questo, i ragazzi autistici pagano un prezzo rispetto ai loro coetanei. Per lui tutto è stato fatica: mettersi una maglietta, andare in bagno, parlare. Tutto gli è stato insegnato. Lui ha faticato tanto, ma noi ci siamo potuti permettere che fosse seguito. Ma chi non ha i soldi? Anche qui, proprio quando la mano pubblica dovrebbe riequilibrare le differenze, invece si accentuano le diseguaglianze sociali. Esistono associazioni, ma sono private. Non c’è nulla di pubblico che affronti il problema dell’autismo e sia vicino alle famiglie».
Come immagini il futuro di tuo figlio?
«Non riesco a immaginarlo. Da una parte è un incubo, la sua solitudine quando noi non ci saremo, dall’altra un sogno, quello di una vita libera e indipendente. È il dramma di centinaia di migliaia di persone in questo Paese. Sembra sia scomodo o inopportuno persino parlarne. In Lombardia hanno tagliato addirittura i fondi per quelli che – nell’uso dell’inglese non risparmiamo – vengono chiamati i caregiver per i casi di disabilità grave».
Quindi l’incontro di Monza sarà l’occasione per dare voce alle famiglie e alle associazioni?
«Ci ritroveremo, noi genitori, per parlare con persone competenti, che hanno studiato questo problema che sta crescendo enormemente. E per condividere esperienze fantastiche come quella di PizzAut – fondata da Nico Acampora, padre di un ragazzo autistico – che sta diventando un vero fenomeno. Invece di far stare i ragazzi in istituto, lui ha pensato di occuparli in ristorante e ora sta progettando 107 mezzi mobili con a bordo di ciascuno cinque ragazzi autistici. Non è bellissimo? Così producono persino reddito, diventano contribuenti. Il presidente Mattarella, con la sensibilità che conosciamo, ha voluto segnalare questa esperienza eccezionale. Ma è un padre ad averla inventata. La politica, i governi, non pervenuti».
È anche, per i ragazzi, una gigantesca esperienza di socializzazione.
«Pensa che uno di loro ha detto: “Quando ero in istituto mi accorgevo di morire ogni giorno un po’”. Fanno un lavoro, stanno insieme, imparano a relazionarsi con le persone, hanno soddisfazioni. Il lavoro, in questo caso, ha un valore di risarcimento. Sembra sia di Darwin la frase “Il lavoro nobilita l’uomo”. Ma nel caso dei ragazzi autistici è di più. Restituisce loro frammenti di vita che altrimenti gli sarebbero preclusi. Sono 600.000 i casi registrati e chissà quanti sono sconosciuti perché nascosti dalla vergogna sociale. Un bambino ogni 75 dei nuovi nati è autistico. E non si sa perché. Ma se non si investe sulla ricerca non si saprà mai. E non si troveranno mai dei rimedi».
Siete collegati, voi familiari?
«Attraverso le associazioni. Ma andando in giro incontro tante persone che mi dicono “Anche io...”. Sono impressionanti la quantità e la misura della solitudine di chi ha avuto la vita sconvolta dall’irruzione dell’autismo nella propria esistenza. Che siano i ragazzi o i loro genitori. Soli, gli uni e gli altri. È importante parlarne, non chiudersi, non nascondersi. È un esercito di persone mute, spesso annichilite da qualcosa che ti cambia tutto. La fatica, per tutti, è spesso insopportabile. Non ci sono pause, non ci sono momenti sgombri di pensieri, mai».
Come il Calvero di Chaplin tu vuoi, tu devi dare allegria pur portando questo peso.
«Io ho sempre vissuto la mia attività artistica come qualcosa che mi consente di donare agli altri. Mi piace veder ridere il pubblico. Mi sembra che si semini del bene, di cui c’è un gran bisogno in questi tempi».