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 2024  maggio 13 Lunedì calendario

Intervista a Neige Sinno

TORINO Violenza, patriarcato, femminicidio, abuso sono parole che rimbalzano nella domenica del Salone, anche fuori dal Lingotto. Suonano forti e precise nei discorsi e nelle pagine di Neige Sinno, scrittrice francese che ieri al Circolo dei lettori ha vinto con 10 voti su 23 il Premio Strega europeo promosso dalla Fondazione Bellonci e da Strega Alberti, con un libro, Triste tigre (Neri Pozza), bellissimo e drammatico, dove il racconto intorno a qualcosa che si fa fatica a pronunciare – l’abuso sessuale, da quando aveva 7 anni, ad opera del patrigno – diventa purissima letteratura. Triste tigre, per cui è stata premiata anche la traduttrice Luciana Cisbani, è un ibrido che mescola il saggio, il racconto autobiografico, la riflessione filosofica e le molte letture, da Nabokov a Annie Ernaux, per dare forma a una storia di violenza iniziata quarant’anni fa. «Solo quando ho trovato la forma il libro è diventato possibile – spiega al “Corriere” —. Non volevo che fosse autobiografico e quando ho capito che potevo scrivere di me senza restare rinchiusa nella categoria dell’autobiografia, ha potuto nascere».
Prima non ci aveva pensato?
«È il quarto libro che pubblico, ma ho scritto molto di più, fiction soprattutto, e ho sempre saputo che l’abuso che ho subito è un materiale, insieme ad altri, della mia scrittura. Non l’ho mai rifiutato, ma non volevo raccontare la mia storia a mio nome, non volevo fare una testimonianza. E infatti c’è una domanda che rivolgo al lettore: che cos’è per te questo testo? E lo chiedo anche a me stessa. Mi chiedo perché rifiuto la parola testimonianza, fino a quando c’è una svolta e il senso cambia. Perché dovrei considerare la testimonianza come una forma di sotto-letteratura? Probabilmente perché è un cliché che ho assorbito. Ma il lavoro del libro è proprio quello di distruggere i cliché, anche questo. La testimonianza può essere arte, è qualcuno che ha visto qualcosa che nessun altro ha visto e lo mostra agli altri».
Gli abusi sessuali sui bambini sono un’emergenza, come i femminicidi. Sempre più spesso sono associati al retaggio culturale del patriarcato, incrostato nella società.
«Per me è una cosa nuova pensare in questi termini. Quello che trovo meraviglioso del #MeToo è che ora mettiamo parole su cose che già sapevamo, ma è come se, senza queste parole, le sapessimo meno. Vivo in Messico dove oggi c’è una rivolta dei giovani che hanno fatto loro questi concetti, ed è normale parlare di patriarcato, dominazione, sfruttamento. Anche la parola femminicidio è recente, così come il fatto di riconoscerlo come un reato specifico, eppure in Messico esiste da anni».
Nel libro ci sono parti molto dure, esplicite. Non ha temuto che questo potesse respingere i lettori?
«Normalmente, quando scrivo, non penso al lettore, ma per questo libro ci ho pensato fin dall’inizio. Mi sono chiesta: come posso proteggerlo? Trovo che sia un bene che ci siano libri forti, violenti, ma io volevo suscitare una riflessione, quindi ho cercato un equilibrio tra le due cose. Naturalmente non si può dimenticare la violenza del racconto, ma in un certo senso la preparo, fin dall’inizio prometto al lettore che farò solo il necessario».
In un liceo francese il suo libro è stato bandito. Perché?
«Era una scuola cattolica privata e credo che l’idea fosse di proteggere gli studenti da un possibile shock. Ma è scioccante il contrario: per proteggerli si chiede il silenzio, quando si sa che è proprio il silenzio la causa principale della violenza. Devo dire che è successo soltanto lì, almeno che io sappia. Sono stata sorpresa dall’interesse che il libro ha suscitato in generazioni diverse. Ho incontrato molti ragazzi, anche perché ho vinto il premio Goncourt des lycéens e nessuno mi ha detto di essere stato scioccato, semmai di avere provato tristezza».
È stato difficile trovare un editore?
«Sì, ho avuto parecchi rifiuti, sia per la forma che per il tema trattato. C’è anche chi mi ha detto: ci sono già troppi libri su questo argomento».
Per lei la scrittura non è una terapia: «L’idea di curarmi attraverso il libro mi fa schifo», scrive.
«È una mia percezione che cerco di esplorare. So che per altri ha senso, ma per me la scrittura non è terapia, è un modo per fare arte e per comunicare. Lo schifo è uno strumento molto importante per me. È anche una delle prime sensazioni di cui si è certi quando si è vittime di abusi sessuali da bambini. Non si sa che cosa sia uno stupro, non si sa se sia male, ma si è schifati. Infatti è una domanda che spesso gli esperti pongono a un minore abusato: qualcuno ti sta facendo qualcosa che ti fa schifo?».
Lei scrive che in questo libro prova a mettersi nella mente del carnefice. Salman Rushdie, presentando il suo «Coltello», qui al Salone, ha detto lo stesso a proposito del suo assalitore. Ha spiegato che in questo modo era lui ad appropriarsi dell’assalitore e non il contrario. Però lui, a differenza sua, non lo conosceva.
«È così, è ciò che significa Triste tigre: io rendo il carnefice, la Tigre, triste perché lo decostruisco. Mi accaparro questa storia e la racconto da un punto di vista che non è il suo. Certo, è molto complesso per me distinguere tra ciò che è mio e ciò che viene da lui, perché sono cresciuta integrando la sua narrazione. Una delle sue strategie per avere il mio silenzio era proprio impormi i suoi ragionamenti, farli entrare nella mia testa».