La Stampa, 12 maggio 2024
Intervista a BigMama
Nella sua vita immaginaria, BigMama, Marianna Mammone, avellinese, 24 anni, un disco d’oro (pochi giorni fa per La rabbia non ti basta), è Antonino Canavacciuolo. Lo dice allo stand della Stampa del Salone del Libro, dove arriva inseguita da genitori, figli, professori, direttori di associazioni di beneficenza e di categoria, donne in divisa, che vogliono, tutte e tutti, due cose: ascoltarla, farsi una foto. La vorrebbero anche allo stand della Polizia «per un saluto». Lei si ferma con tutti. Piacere agli altri le piace immensamente.
La cosa più femminista che fa nel suo libro, Cento Occhi, dal 14 maggio in libreria per Rizzoli, è rivendicare quel piacere, l’eccentricità, l’esuberanza, l’amore per il palco, per l’attenzione del pubblico, l’esibirsi. Rivendica la «tracotanza ribelle» che, quando aveva 13 anni, l’ha fatta innamorare di Salmo.
Marianna, l’esuberanza si paga?
«Moltissimo. Io l’ho pagata da bambina, perché veniva scambiata per indipendenza, forza: venivo lasciata sola a badare a me stessa, nessuno mi aiutava perché tanto ce l’avrei fatta a sopportare qualsiasi cosa. Quindi, a poco a poco, quell’entusiasmo che avevo si è spento: pensavo che mi rendesse sgradita, inamabile, di troppo. E ci ho messo moltissimo tempo a riaccenderlo, a riprendermi il centro dell’attenzione».
In una sua canzone, lei scrive: “Indosso il peso della vita, la mia taglia è xxl”.
«Il mio corpo ha sempre parlato per me. Ero una bambina con un corpo non conforme e questo significava che c’erano cose che non potevo fare e che nemmeno potevo sognare. Il mio aspetto veniva prima di tutto, influenzava e determinava tutto».
Quando si è ammalata di cancro, la prima volta che si è rivolta a un medico perché stava male, le ha detto di mangiare di meno.
«E invece avevo i linfonodi ingrossati perché avevo la stessa malattia che ha ucciso mia nonna. E l’ho scoperto perché mi sono messa a fare la cosa che dicono sempre di non fare: ho cercato su internet, ho descritto i miei sintomi su Google».
Ha subito di tutto. La depressione di sua madre, la violenza di suo fratello, il bullismo a scuola (di professori e compagni), uno stupro, il cancro a vent’anni. Come ha fatto a non mandare tutto al diavolo?
«Perché avevo un sogno. E lo ho ancora. Io voglio cantare. E sarei rimasta a scrivere canzoni per me, se non avessi scoperto che piacevano agli altri, se non avessi capito che li fanno sentire meno soli. Io ho una voce e la devo usare».
Lei è un esempio?
«Non lo so. Non sono sicura che sia una parola che mi piace. Per alcuni lo sono, ma non voglio che questo mi obblighi a portare sempre e solo messaggi positivi, sempre e solo storie belle, con il lieto fine. Ho scritto questo libro per spiegare tutto quello che le canzoni non possono spiegare, perché odio essere fraintesa, perché ho una storia molto particolare, piena di grazia e piena di sfortuna, di amore e piena di dolore».
Le pesa essere famosa?
«Ma che famosa! Diciamo che sono conosciuta dalle persone giuste».
E chi sono?
«Quelle che mi guardano perché ho scritto Sangue (il suo primo disco, uscito quest’anno, ndr) e non perché sono grassa».
Il mondo la spaventa?
«No, ma va cambiato».
Come?
«Facendo quello che la mia generazione sta facendo in tutto il mondo: ribellandosi. Le persone intelligenti cercano sempre di avere un mondo libero, ma le nostre parole vengono sempre liquidate. Ci dicono che non capiamo, che non facciamo differenze, che non sappiamo le cose, ma che cosa c’è da capire? Le ingiustizie sono evidenti, chiare».
Crede che la repressione violenta delle manifestazioni degli studenti possa inibire le proteste?
«Ma si figuri. Siamo una generazione che sogna in un mondo in cui è difficilissimo sognare: una forza come questa non si spegne».
Scrive: la tracotanza è la virtù della ribellione.
«Sì. Salva il futuro. Ho imparato questa parola quando una volta ho chiesto: come posso dire “too much”?. Dobbiamo esagerare. Tutti!».
Com’è la sua generazione?
«Appassionata e spaventata. Credo che prima di noi la paura per il futuro che si faceva sempre più incerto, abbia prodotto una specie di ritrazione, una resa. Per noi è successo il contrario: la paura è stata uno sprone. E poi c’è una cosa bellissima che stiamo provando a fare: insegnare agli adulti. C’è da imparare dai grandi, va bene, ma pure dai piccoli. Per alcune cose, gli adulti non hanno sensibilità e sguardo ed è normale: però noi li abbiamo, e li offriamo. In questo libro ho raccontato come un certo modo inaccorto e violento di educare i bambini, che fino a pochi anni fa veniva considerato normale, ha creato disastri psicologici ed emotivi che hanno compromesso per sempre la loro vita. Dicono che siamo troppo fragili, impressionabili, mammolette. Io dico, invece, che non c’è alcuna ragione di continuare a tollerare che dei professori bullizzino dei ragazzini, che chi ha un corpo non conforme venga messo alla gogna: niente di tutto questo forma, come ci hanno raccontato spesso. La violenza non forma: deforma».
Lei ha perdonato?
«Io ho capito. Il punto non è tanto perdonare, quanto capire se e quando giustificare un comportamento che abbiamo subito. I genitori sono persone, e possono sbagliare: abbiamo il dovere di capire le ragioni dei loro errori. E vale per tutti. Però, per alcune azioni non ci sono scuse, non c’è perdono. Molte persone che mi hanno umiliata e fatta soffrire, sono venute a scusarmi quando mi hanno vista sul palco di Sanremo».
Perché teneva tanto ad andare a Sanremo?
«Perché volevo un riscontro importante. Io sono brava se il pubblico mi apprezza. E poi volevo far arrivare le cose che ho da dire più lontano possibile».
Perché il rap ha così tanto successo?
«Perché è crudo. E in questo momento così difficile, credo che tutti abbiano voglia di ascoltare la verità e non le storielle».
È ancora molto maschilsta?
«Ci sono un sacco di ragazze in classifica, ed è un bene. E di testi maschilisti se ne sentono sempre di meno. Ormai, sono una cosa da sfigati. Però, questa è solo la superficie. Il rap è lo specchio della realtà e se la realtà è maschilista, lo è anche il rap».
Quando si laurea in Urbaistica?
«Non faccia come mia madre, per favore. Quando le ho detto che sarei andata a Sanremo, che avevo finito la chemioterapia, che volevo sposarmi, la sua risposta è stata sempre la stessa: ora pensa a laurearti. Mi manca un esame, lo farò. La tesi è bellissima e vorrò i paparazzi fuori per raccontarla».
Ma vuole fare l’urbanista?
«No. Ma studiarla mi piace. L’urbanistica ti dà una visione oggettiva del mondo che ti circonda. Ed è una disciplina che può molto concretamente migliorare la vita delle persone».
Ha un’altra grande passione?
«Il sesso con le donne».
“Ascolti BigMama, da oggi sei gay”, canta lei.
«Mamasutra è forse la mia canzone che amo di più».
Ha scritto: la mia più grande rivalsa è amare me stessa.
Che significa amarsi?
«Provare a fare tutto quello che si desidera. Impegnarsi. Cadere. Rialzarsi. Se ti rialzi, significa che il tuo sogno è importante, è quello giusto».
Perché sul palco del Primo Maggio ha detto: fallite!
«Un dirigente d’azienda italiano mi ha spiegato che in America vengono assunti più facilmente quelli che hanno fallito più di una volta, perché si pensa che abbiano imparato di più. Questa cosa mi ha cambiato la prospettiva su tutto».
È felice?
«Sono viva, come potrei non esserlo?».