il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2024
Il cornuto a cui scappava la pipì
Da un racconto apocrifo di Giuseppe Zucca.Adoravo mia moglie, e la mia vita con lei nonaveva nulla da invidiare a nessuno. Eravamosposi da circa un lustro. Lei era molto più gio-vane di me, ma io non ero affatto vecchio. In lei avevouna fiducia assoluta e mi curavo di procacciarle tutte lecomodità di cui manifestava il bisogno. Un giorno il co-lonnello Manetti fu promosso di grado e mi invitò, conaltri ufficiali, a festeggiare in casa sua. Faceva un grancaldo e bevvi un’enorme quantità di birra. Scendendo lescale, mi accorsi di averne in corpo un numero eccessivodi litri: urgeva espellerli. Mi diressi frettoloso a una spe-cie di garitta di ferro non lontana da lì, allorché mi im-battei nella moglie del generale Moschin. Dopo i salutimi domandò di mia moglie, quindi mi trattenne inchiacchiere per una quindicina di minuti, durante i qua-li, pur con tutto il rispetto dovuto a una signora, cercai intutti i modi di tagliar corto, senza riuscirci. Mi chiese in-fine dove stavo andando. Naturalmente non potevo ri-sponderle che mi stavo precipitando a una garitta pocodistante dove avrei eccetera; perciò, dissimulando lamia contrarietà, mi limitai a dire:“Da nessuna parte”.“Benissimo”disse, “mi accompagni a casa”. Ero in trap-pola. “Molto volentieri”. E mi incamminai al suo fianco.Purtroppo, quella donna apparteneva alla specie odiosache si ferma ogni quattro passi per dare maggior risaltoai suoi discorsi noiosi. Io rispondevo a monosillabi eguardavo ora a destra ora a sinistra, cercando una via discampo. Lei notò la mia inquietudine:“Sembra che laaffligga qualcosa”.“A me? Nemmeno per sogno. Glielogiuro. Tutto benissimo”. Soffrivo molto, invece; ma nonero ancora alla feccia del calice. La signora Moschin en-trò in un negozio e mi fece attendere fuori. La mia ansia,fermo, impalato all’ingresso, cresceva, cresceva. Co-minciai a muovermi, a fare qualche passo, ed ero già de-ciso a scappare quando lei riapparve. Arrivati sotto casami trattiene un altro quarto d’ora. Non ricordo quelloche mi disse, ero ossessionato da questa idea: “Sto perscoppiare. Offrirò uno spettacolo terribile alla mogliedel generale”.“Perché non viene su? Mio marito è in ca-sa”.“Grazie, signora. Gli porga i miei saluti.” “Sa l g a.”“Oh!”protestai, abbandonandomi senza ritegno all’im -presa di levare ora una gamba e ora l’altra per alleviare lemie pene. Lei non mollava:“Appena cinque minuti”.“Im p o s s i b i l e !”ruggii, e mi allontanai a passi velocissi-mi. Dove andare? Il generale viveva in una via troppofrequentata perché un uomo in uniforme potesse insu-diciarvi un muro. Giunsi a credere che fosse necessariomorire eroicamente. Mi pareva che la birra ingerita siagitasse nella mia cavità addominale come i cavalloni inun mare infuriato. E sentivo i reni che lavoravano inces-santemente, distillando, distillando. La mia casa non e-ra lontana. “A casa!”decisi. Ci arrivai in furia, come unpazzo. Entrai in ascensore: non funzionava. Uscii e saliia grandi salti i tre piani. Trassi di tasca la chiave. Le manimi tremavano a tal punto che tardai oltre un minuto adaprire la porta. E, senza indugiare a richiuderla, entraicome un fulmine; ma oltrepassando una stanza vidiquello che non potrò scordare: mia moglie fra le bracciadel capitano Eugenio di Belmonte. Fu come ricevere u-na palla nel petto. Indugiai un istante, ma non ne potevopiù. Affacciai la testa e urlai:“Vi ucciderò, miserabili!Torno subito!”E mi precipitai in bagno. Mi fu impos-sibile, assolutamente impossibile, agire diversamente.Mi soffermai quanto bastava. Emisi un sospirone. “Fi -nalmente!”esclamai. Corsi nella stanza che ospitava icolpevoli: nessuno. Cercai per tutta la casa: nessuno. Ivili avevano approfittato del contrattempo per fuggire
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