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 2024  maggio 12 Domenica calendario

Occhetto racconta la svolta

«Quel 30 novembre dovevo essere scomunicato». È al 30 novembre del 1989 che si riferisce Achille Occhetto. Sta per stringere la mano a Mikhail Gorbaciov, che è a Roma in visita di Stato. Il segretario del Pci ha appena annunciato la Svolta – conseguenza della caduta del Muro di Berlino – e l’incontro avviene «in uno dei giorni più infuocati della lotta interna sulla mia proposta di cambiamento». Proposta che porterà al cambio del nome e del simbolo: «Nutro qualche timore sulla reazione del segretario del Partito comunista sovietico. So che è un innovatore ma so anche che non è tenuto a sostenermi. A me basta non si metta di traverso».
Occhetto – il futuro fondatore del Pds – rivive il momento in cui Gorbaciov gli appare davanti e «con un grande sorriso mi grida da lontano: “Cosa mi hai combinato?” Il tono è amichevole, ha l’aria scherzosa ma io raggelo». È un attimo, «solo un attimo». Ma è lunghissimo. «Finché mi invita a sedere accanto a lui su un piccolo divano e a voce bassissima mi dice: “Questa mattina tre importanti dirigenti storici del tuo partito hanno chiesto di parlarmi prima che ti vedessi. Ma ho rifiutato”. Evidentemente volevano rendergli nota tutta la loro avversione alla Svolta».
Perché lei non ha mai reso noti i nomi dei suoi tre compagni?
«Perché Gorbaciov è corretto durante il colloquio. Lui non mi fa i nomi».
Ma lei verrà a sapere che gli «importanti dirigenti storici» erano Armando Cossutta, Pietro Ingrao e Aldo Tortorella.
«Non mi sono messo a indagare. In seguito saprò che erano tra i massimi esponenti delle due mozioni di opposizione. A Gorbaciov sarebbe stata chiesta la mia scomunica. Ma con lui i vecchi tempi erano passati: non potevano più chiedere all’Unione Sovietica di schierarsi. E il rifiuto di incontrarli ha un preciso significato politico: non vuole ingerirsi nel dibattito interno al Pci. Atteggiamento del tutto inedito per il capo di un partito che non solo si “intrometteva” ma che a lungo si era considerato il “partito guida”. Si può dire che quella irrituale richiesta di incontro è stata l’ultimo riflesso della vecchia politica. D’altronde Gorbaciov, fin dal nostro primo incontro mi aveva dato l’impressione di essere un esponente della sinistra europea».
A quando risale quel colloquio?
«Ci vedemmo nell’inverno del 1987, a Mosca, sotto una interminabile nevicata che imbiancava le guglie del Cremlino. A Botteghe Oscure ero il vice di Alessandro Natta e nutrivo grandi aspettative sull’azione di Gorbaciov per superare le gravi difficoltà del suo Paese. Ma prima di incontrarlo tutti i membri della segreteria del Pcus vollero vedermi. Tra loro c’era il nemico di Gorbaciov: Egor Ligaciov. Dovetti sorbirmi un lungo panegirico sulla Perestrojka e frasi del tipo “qui tutto va bene”, “il popolo è entusiasta”, “il popolo è con noi”. Pensai: “Siamo alle solite, non è cambiato niente”».
È vero che fu tentato di interrompere la visita?
«No. Anche perché alla fine di quell’incontro un dirigente del Pcus mi avvicinò e mi sussurrò: “Compagno Occhetto, non ti preoccupare. Più tardi sentirai una musica diversa”».
Si riferiva a Gorbaciov.
«Sì. Appena entrato nella sua stanza, mi accolse dicendomi: “Tutto qui è terribilmente difficile. Le contraddizioni sono molte e l’ostacolo principale è il partito, le sue resistenze”. Già l’uso di parole come “contraddizioni” e “difficoltà interne” erano una vera rivoluzione culturale. Si diffuse in attente analisi sulla socialdemocrazia europea, convincendomi che volesse superare lo scontro tra comunismo e socialdemocrazia. Mi parlò della sua esperienza all’Università di Praga, della sua amicizia per Alexander Dubcek».
Ma Dubcek era stato l’artefice della «primavera di Praga», che nel 1968 venne soffocata nel sangue dai carri armati sovietici.
«Gorbaciov parlò di Dubcek come di un “rinnovatore”. E aveva ammirazione per l’Italia e per il nostro partito. Tornai a Roma rinfrancato. Lo rividi da segretario del Pci, nove mesi prima della Svolta».
Ebbe l’impressione che quel viaggio fosse stato in qualche modo osteggiato da dirigenti del suo partito?
«No, non ne ebbi sentore... ma in che senso osteggiato?».
Il «controllo» Usa
Io ero attenzionato dagli Usa? Nell’87 a Mosca
non andai a prendere istruzioni per il nostro congresso. Non lo feci mai
In quei giorni l’ambasciatore americano a Mosca, Jack Matlock, trasmise un dispaccio a Washington. C’era scritto che la preparazione della sua visita aveva «creato problemi nel Pci».
«Ero attenzionato dagli americani, quindi. Non ne ero al corrente».
Sono atti appena desecretati. Secondo Matlock a Botteghe Oscure c’era chi riteneva che lei avrebbe incontrato Gorbaciov per avere «istruzioni sulla conduzione del congresso del partito».
«Si riferisce al diciottesimo congresso, quello del “Nuovo Pci”. Quando peraltro la Svolta non era nella mia mente. Sì, parlai a Gorbaciov delle nostre assise, gli spiegai che eravamo interessati a sviluppare al massimo il nostro nuovo corso riformatore e che seguivamo con grande interesse il nuovo corso della politica sovietica: la Perestrojka... (la voce di Occhetto si altera) Ma io non andai a “prendere istruzioni”. Non lo feci mai. Sarebbe stata ingenuità o follia chiedere il permesso a Mosca».
L’ambasciatore americano non parla di lei, parla di ciò che dicevano i suoi compagni di lei. E scrive che la «confidenza» gli era giunta da «un rappresentante del Pci introdotto negli ambienti moscoviti».
«C’era chi ne sapeva più di me di quanto accadeva nel mio partito in quel periodo...».
A quanto pare non era solo Gorbaciov ad avere problemi nel Pcus. Basti ricordare al suo conflitto con Massimo D’A...
«Per carità, no... Stavamo parlando della mia visita a Mosca. Quando ci vedemmo con Gorbaciov, gli feci notare che gli Stati Uniti erano preoccupati di preservare il loro rapporto con i Paesi europei occidentali. E che forse da qui nascevano alcune diffidenze verso la politica sovietica. “Ma noi – mi rispose – nel nostro rapporto con gli europei non intendiamo affatto tagliare fuori né gli Stati Uniti né il Canada. Non vogliamo suscitare rivalità o divisioni”. Mi fece anche capire che era disposto ad aprire colloqui riservati con gli Usa sulla progressiva limitazione delle armi di distruzione di massa e sul disarmo bilanciato e controllato. Cosa che avrebbe fatto in seguito».
E lei?
«Presi spunto dal racconto che mi fece di un suo faccia a faccia con Giscard d’Estaing. Il presidente francese gli aveva preannunciato che “tra pochi anni avrete a che fare con un grande e forte Stato federale nell’Europa”. Io dissi a Gorbaciov che in Europa c’erano ancora molte forze di sinistra, in particolare una serie di partiti comunisti, che rimanevano pregiudizialmente contrari a tale processo. E per noi tutto ciò era incomprensibile, perché bisognava assumere un atteggiamento più costruttivo verso le forze socialiste e socialdemocratiche».
A Roma fu l’ultima volta che vi vedeste: l’ultimo incontro tra l’ultimo segretario del Partito comunista sovietico e l’ultimo segretario del Partito comunista italiano.
«Purtroppo il generoso tentativo di Gorbaciov non andò a buon fine. Tutto un sistema di miti e false certezze collassò. Tanti anni di socialismo reale non avevano lasciato traccia di socialismo ideale. Lo testimoniò la maggioranza del popolo russo, che fu disposto a passare da un autoritarismo all’altro piuttosto che accettare le idee liberatrici di chi era considerato un utopista visionario. E questo processo involutivo avvenne sotto lo sguardo compiaciuto di un Occidente che in parte favorì la deriva autoritaria».
A distanza di trentacinque anni, ritiene che la sua Svolta sia stata tardiva?
«Gli elementi di declino dell’Urss erano evidenti fin dagli anni Settanta. E forse fin da allora necessitava cambiare il nostro nome. Enrico Berlinguer lo aveva già intuito. Fui testimone diretto di un indizio significativo. Durante un viaggio in Sicilia, Berlinguer mi chiese a bruciapelo: “Cosa mi diresti se cambiassimo nome?”».
Si discusse attorno alla definizione «Comunisti democratici». Poi non se ne fece niente. Finché non cadde il Muro.