Tuttolibri, 10 maggio 2024
Biografia di Fausta Cialente
Nel 1976, con Le quattro ragazze Wieselberger, Fausta Cialente vinse il premio Strega. Era la quinta donna ad aggiudicarsi il riconoscimento (che esisteva dal 1947), fino a quel momento c’erano riuscite Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese e Lalla Romano, dopo di lei sarebbero trascorsi altri dieci anni prima di veder trionfare un’altra scrittrice (Maria Bellonci, con Rinascimento privato).Nel 1976 Cialente ha settantotto anni e alle spalle un percorso splendido e inusuale. Ha scritto romanzi e racconti a volte ispirati alla sua vita in Egitto, dove ha risieduto a lungo con il marito per motivi legati alla sua professione; si è avvicinata, anche grazie all’amicizia con Sibilla Aleramo, alla questione femminile; ha subito la censura del regime (il suo romanzo d’esordio, Natalia, aveva al centro un amore fra donne). La sua prosa non somiglia a quella degli altri narratori italiani, si muove tra sogno e realtà con scarti originali, non convenzionali, ignorando confini dettati da codici e generi; sceglie temi che variano indipendentemente dalle mode ma anche dai nuclei con cui di volta in volta sarebbe facile identificarla, non ha paura dei lunghi silenzi. Cialente di certo non insegue il successo, eppure è impossibile ignorarla: prima di vincere era già stata finalista con Un inverno freddissimo (da cui fu tratto anche uno sceneggiato), era stata difesa dalla critica, aveva vinto tra gli altri il premio Galante, destinato solo alle donne.In questo tracciato di libertà, mosso da un’audacia tutt’altro che ostentata, nel 1961 arriva Ballata Levantina, ambientato in Egitto come altri suoi più o meno noti (il precedente Cortile a Cleopatra, il successivo Il vento sulla sabbia) ma del tutto autonomo in termini di trama e di godibilità letteraria. Nella nota che accompagna la pubblicazione, l’editore Feltrinelli spiega che, rispetto agli scenari africani, qualcosa in Fausta Cialente è cambiato, come a colmare una mancanza: «I colori, i profumi, le dolci, struggenti apparenze sono rimasti i medesimi e rivelano ancora una volta le parentele letterarie della scrittrice (Conrad, Colette). Oggi, tuttavia, nel gioco già delizioso della Cialente è entrata la storia, la politica, il giudizio morale». L’editore continua definendo il romanzo un piccolo miracolo, perfetto nella struttura nonostante la folla di personaggi, e lo paragona alle architetture di Flaubert.In effetti Ballata levantina è un libro straordinario, ieri come oggi – è adesso riproposto dai tipi di Nottetempo con la curatela di una scrittrice brava come Emmanuela Carbè. È la storia di Daniela, un’orfana arrivata in Egitto per essere affidata alla nonna ex ballerina, che confessa di non essersi ancora interessata alla sua immagine, cioè a sé stessa: «A chi somigliavo, dunque? Non alla nonna, non avevo la sua bellezza romantica, i suoi lineamenti aggraziati; a mia madre nemmeno, che non era stata bella, dicevano le donne, ma appena si accennava a lei tutte riprendevano a compiangerla perché era morta giovane (si era sposata dopo i trent’anni, nella sua vita tutto era venuto tardi, meschina, tranne la morte), e ne celebravano la dolcezza in termini enfatici, schioccando in aria baci sulle dita». Cercandosi invano tra i ritratti femminili della famiglia, Daniela decide allora di rintracciare le somiglianze con il nonno, e s’imbatte in una foto trafitta da spilli, come una fattura. Tra sortilegi e turbamenti, memorie e brutalità, la voce della nonna e quella della schiava Soàd intrecciano la prima parte; dentro il suono ipnotico del tamburello arabo, con i suoi cerchi disegnati nell’aria, Daniela si sposta poi alle Stamberghe, accudita da Livia e Matteo, una coppia di italiani che si occupa di lei durante la malattia e il decadimento fisico della nonna. La sua morte è la fine di un regno, l’inizio di un’altra vita: «La morte, sicuro: un intervallo nero, ogni tanti anni. Il vecchio, i miei genitori, la nonna».Con lucidità straniante, tra apparizioni fantasmatiche e un inevitabile presente, ostilità, sradicamenti e improvvise vicinanze, il romanzo vibra, proprio come una ballata di vento e di sabbia. Dalla lingua asciutta affiorano parole d’oriente senza esotismi, con naturalezza quotidiana, in una miscela aperta, molto diversa dal ritmo serrato delle altre narratrici che, in Italia, si dedicavano a raccontare famiglie borghesi chiuse nei loro regionalismi. Qui la borghesia è asfittica e opprimente, il colonialismo è colpevole, il tono morale che l’editore sottolineava e salutava emerge in realtà dalla crudeltà e complessità dei fatti. I personaggi qui si parlano, ma sembrano parlare soprattutto a sé stessi, in dialoghi che possono stupire per la loro veridicità ellittica, nell’eccesso di spiegazioni cui siamo oggi abituati. E anche per questa originalità non invecchiata il romanzo dovrebbe oggi essere letto e di nuovo amato.