Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  maggio 10 Venerdì calendario

Su Kafka

Giulio D’Antonaorse per la sua natura di autore incompiuto, Franz Kafka è la base di molta dell’identità letteraria nella quale sono immersi gli scrittori contemporanei. L’impossibilità di conoscerlo completamente, di poter dire, come piace, «Ho letto tutto, di lui», lo rende inavvicinabile: uno scrittore per gli scrittori, che ha sempre ardentemente desiderato diventare un romanziere pur non rinnegando mai la sua anima impiegatizia, e che alla fine, consapevolmente o meno, è sempre stato destinato a non completare la sua trasformazione. La sua metamorfosi definitiva. Uno che lascia lettori ed esegeti con la sete, con la necessità di altro materiale che non arriverà mai. Come scriveva giustamente Milan Kundera: «Conosciamo Kafka attraverso un affronto inaccettabile che ha permesso al poco che ha scritto di capitarci in mano». Kundera si riferiva al rifiuto di Max Brod di onorare le volontà dell’amico che aveva chiesto che tutta la sua produzione venisse distrutta dopo la sua morte e che, anzi, ne aveva largamente pubblicato prendendosi anche la licenza di completare, elaborare, modificare e interpretare per quanto sapeva e poteva ricordare. Senza questo affronto, è vero, non avremmo Kafka; ma nemmeno i suoi autoproclamati allievi, i suoi fan sconsiderati, i suoi impavidi emuli e il maldestro abuso della sua figura. Non avremmo i racconti “kafkiani”, le battute da grande schermo, un numero sorprendentemente alto di aspiranti autori con il suo ritratto tatuato addosso e il mito dell’amore letterario incapace di amare davvero, dello scrittore recluso, dello scrivere di notte.«Kafka è pop», per citare il fumettista Peter Kuper, autore tra l’altro di un famoso adattamento della Metamorfosi (pubblicata in Italia da Tunué per la traduzione di Elena Dardano), «E il pop tende a prendere la forma che il pubblico le assegna».Non è mai nel profondo della natura dello scrittore da ricercare il significato delle sue opere, quindi, ma nell’uso che se ne è fatto, nella strada che hanno preso dopo aver cessato la loro funzione primaria di sfogo dell’impulso creativo, e avere assunto quella di totem della venerazione senza che lui, che forse avrebbe voluto fermarli o godere della loro fama, abbia mai potuto farci nulla. La sua opera va alla felice deriva e abbraccia chiunque si trovi pronto ad accoglierla. Kafka è di tutti, eternamente incompleto e compreso da nessuno.Durante un’intervista con Teruo Nakamura, l’ultimo dei “soldati fantasma” giapponesi che si arrese solo nel 1974, un reporter chiese: «Lo sa che lei è diventato un simbolo di resistenza e determinazione?». «Simbolo?», avrebbe risposto Nakamura, «Avevo timore di infrangere gli ordini», mandando così in fumo una trentina d’anni di nazionalismo basato sulla supposizione del suo sentimento patriottico. E così, Kafka, il primo degli “scrittori fantasma”, vive e risplende della sua immagine riflessa, rimbalzata di racconto in racconto attraverso le convinzioni di chi è venuto dopo di lui. Un fatto quantomeno ironico, vista la sua leggendaria avversione agli specchi.Ha detto Paul Auster: «Non posso nemmeno annoverare Kafka tra i miei maestri, perché non mi ha mai davvero insegnato nulla, se non ad avere ancora più dubbi sulla vita e sulla scrittura». Eppure, anche in questo a qualcosa è servito: senza le sue fantomatiche nevrosi, tramandate un po’ attraverso i diari e le lettere e un po’ a cavallo della ripetizione di aneddoti sempre più sbiaditi, veri o presunti, da circolo dei lettori, Auster – ma nemmeno Philip Roth, Saul Bellow, Joshua Cohen e tutti coloro che, nel corso della storia, si sono dichiarati eredi, ispirati e simpatizzanti – non avrebbero probabilmente trovato l’ispirazione per dare sfogo alle proprie idiosincrasie. Kafka, per molti venuti dopo di lui, ha fatto da punto di ingresso nell’onestà letteraria, semplicemente esistendo per i quarantun anni che gli sono stati concessi e provando con tutte le sue forze a diventare «Un buono scrittore, una persona decente e un amante passabile», citando Bernard Malamud. «Non proprio una persona felice», come ebbe modo di raccontare Brod nella sua ultima intervista, «ma sicuramente meno triste di come è stato poi ricordato».In una specie di breve biografia realizzata dall’illustratore viennese Nicolas Mahler e intitolata A tutto Kafka (in Italia per Clichy e la traduzione di Matteo Galli e Franziska Pletenburg-Brechnneff), lo scrittore viene plasmato da una manciata di argilla di recupero dalle mani di un rabbino confuso. Ne esce più alto, pensieroso e malinconico della media. Una versione diversa dello stesso mito creativo si trova nel capolavoro Kafka di David Zaine Mairowitz, illustrato da R. Crumb (in Italia raccolto in ultima edizione da Comicon). Piace così: che non sorrida, che viva ritirato, preda della sua antipatica ispirazione. L’anti-pop divenuto icona, il recluso in grado di dare agli scrittori che ne hanno bisogno un’immutabile giustificazione per tutto ciò che la scrittura richiede: quell’annullamento di sé in favore della piena nudità letteraria, professato da J.D. Salinger e raggiunto da pochissimi – certo, non da Kafka.In un libro del biografo Reiner Stach intitolato Questo è Kafka? (in Italia per Adelphi e la traduzione di Silvia Dimarco e Roberto Cazzola) compaiono due fotografie: nella prima vediamo una piccola folla di spalle, intenta a osservare il decollo di un aereo a Montichiari, l’11 settembre del 1909; nella seconda, una grande folla radunata a Merano il 9 maggio del 1920. In entrambe compare, forse, Franz Kafka: vicino, in cappello e completo scuro a Montichiari; lontano, in vestito estivo bianco, a Merano. In entrambi i casi non c’è la certezza che si tratti proprio di lui, ma crederlo aiuta a rendere le due foto immortali e a restituire a lui l’umanità che piano, piano, la leggenda gli ha eroso dal ricordo. È un uomo tra gli uomini, più simile all’assicuratore che era di giorno che allo scrittore che si scatenava di notte. Lì, mischiato alla folla anonima, lo si vede sfocato, indeciso, incompiuto come quella frase sospesa che chiude Il castello e che non ha bisogno di interpretazione o di santificazione, perché semplicemente è quello che è: una penna posata prima del tempo.
•••Elena Loewenthal«Tradurre un libro non è come contrarre un matrimonio o associarsi in affari. Si può sentirsi attratti anche da chi è molto diverso da noi, proprio perché lo è: se così non fosse (...) ognuno leggerebbe solo gli scrittori che gli sono consanguinei, il mondo sarebbe (o apparirebbe) meno vario e non nascerebbero più idee nuove». La conversazione con Anita Raja intorno alla sua nuova e splendida versione de La metamorfosi di Franz Kafka parte dalle parole che Primo Levi dedica alla propria esperienza di confronto con il Processo.La traduzione come dialogo, confronto, scoperta. Si ritrova in queste parole?«La traduzione è essenzialmente apertura all’altro da sé. Non mi permetto di fare della teoria della traduzione, per me contano l’esperienza e l’interrogarmi sulla attitudine verso il testo: non autoriprodursi ma aprirsi. Portare il testo in una lingua che va inevitabilmente forzata, perché il processo di passaggio significa anche la consapevolezza dei limiti che ogni lingua ha. Limiti e possibilità: il testo originale è unico, ma sprigiona infinite possibilità di traduzione, permette di cogliere ogni volta nuovi sensi. Il traduttore è una persona determinata, si colloca in un punto preciso del tempo e dello spazio: tutto ciò influisce sulla resa del testo».Tocchiamo ora più da vicino “La Metamorfosi”. La sua nota alla traduzione non ha nulla di teorico ma è, nella sua brevità, un racconto davvero avvincente del lavoro fatto, del metodo che ha usato. C’è, nella sua resa di Kafka, un equilibrio esemplare fra la novità di certe scelte traduttive e la conservazione di una tradizione di lettura. A partire dal titolo...«Metamorfosi: da un punto di vista filologico Kafka avrebbe potuto usare il corrispettivo in tedesco. Invece il libro si intitola Verwandlung, che significa più estesamente “trasmutazione”, “mutazione”, movimento che modifica e stravolge: la parola insiste sulla deviazione in atto, dà un’indicazione dinamica. Ma cambiare il titolo di un libro così noto in tutto il mondo, su cui tutto è già stato detto, non si poteva; però lungo tutto il lavoro di traduzione ho tenuto presente questa natura del testo, il fatto che al centro del racconto ci sia questo cambiamento radicale che riguarda non soltanto il protagonista ma anche il mondo che ha intorno. Tutto sta già racchiuso nella prima frase del libro: “Una mattina Gregor Samsa, al risveglio dopo sogni inquieti, si scoprì mutato, nel suo stesso letto, in una immonda bestia fuori misura”. Kafka non usa mai la parola Insekt, ma ricorre sempre a un lessico più generico che rimanda indefinitamente al regno animale».Né insetto, né quello “scarafaggio” che siamo abituati a immaginare leggendo “La metamorfosi”. Eppure la sua è una traduzione molto fisica, visiva. La “bestia immonda” acquista qui una concretezza sorprendente, la si ha davanti agli occhi nei suoi contorni, nel dolore fisico che prova spesso, persino nei rari momenti di benessere. Può raccontarci come ha fatto ad arrivare a una resa così efficace?«Si trattava di individuare una chiave di lettura del testo. Quanto alla fisicità della bestia, Kafka non specifica mai in che animale Gregor si trasforma. E non lo sa neanche lui! Una mattina si ritrova dentro un corpo mutato, ma non lo avverte subito, non lo comprende: sa solo che da quella mattina ha un io umano e un corpo diverso. Teniamo presente che in questo contesto l’italiano e il tedesco sono lingue molto diverse fra di loro. Il tedesco è più inclusivo nei confronti del regno animale, l’italiano distingue di più. In italiano l’animale ha zampe e non gambe, ad esempio, mentre in tedesco c’è una parola sola: chi legge non si pone il problema se l’arto in questione sia di un essere umano o di una bestia. Anche il verbo “strisciare”, che Kafka usa qui per descrivere il moto di Gregor, in tedesco è meno specifico che in italiano. È stato complicato lavorare su questo fronte, cercare di rendere l’italiano più “comprensivo”, più generico. Nel testo originale ci si trova poi di fronte a un processo di riconoscimento e accettazione del sé che parte proprio dal lessico: nella seconda parte del libro Gregor si rassegna alla propria condizione e Kafka usa un linguaggio via via più “bestiale”. Come al momento di far morire Gregor esalando debolmente l’ultimo respiro “dalle nari”, alla lettera “froge” dei cavalli. Quanto alla definizione dell’animale che diventa Gregor, ho escluso “insetto” e qualunque altra specificazione – scarafaggio, coleottero -, perché Kafka è molto esplicito: in una lettera del 20 ottobre del 1915 raccomanda al suo editore, Kurt Wolff, di evitare per la copertina qualunque raffigurazione di insetto. Vorrebbe o i genitori e la sorella affacciati dietro la porta socchiusa o l’immagine della porta stessa. La prima frase del libro indica chiaramente la strada, al lettore e al traduttore: Gregor è diventato un Ungeziefer. È una parola tedesca con una lunghissima storia, complessa e ancestrale. Indica gli animali impuri nella Bibbia – non da un punto di vista morale, beninteso, ma rituale e alimentare. Mi sono soffermata molto su quel prefisso Un, che nelle prime tre righe del racconto compare tre volte – i sogni sono unruhigen, “inquieti”, Gregor è diventato un Ungeziefer, una “bestia immonda”, ungeheuren, “fuori misura”. Tutto si gioca attraverso questo prefisso negativo su cui ho riflettuto tanto nel corso del lavoro di traduzione. Del resto Gregor è definito da parole diverse a seconda degli occhi di chi lo guarda – la sorella, ad esempio, che sarà l’unica a riservargli un minimo di pena, lo chiama Tier e alla fine Untier, che ho tradotto con la perifrasi “l’essere che non è nemmeno un animale”. Non ho voluto cambiare la frequenza dei termini e la ripetizione delle parole. E tanto peso ha anche, lungo tutto il libro, quell’inquietudine nei sogni della prima frase, che è smarrimento e sgomento».L’inquietudine è davvero un filo conduttore nell’intero svolgersi della storia. E lo smarrimento coinvolge non solo i personaggi e tutto il loro mondo, ma anche chi legge: “La metamorfosi” ha ancora una capacità strabiliante di inquietare, di destabilizzare...«Sì, anche nelle misure del tempo. Kafka non dà modo di capire quanto duri la storia. All’inizio è chiaro che si tratta di giorni. Ma poi tutto sembra dilatarsi e i personaggi – Gregor, la sua famiglia, l’amministratore, la serva – trovano una sorta di normalità, di abitudini quotidiane che potrebbero essersi protratte per mesi, anni».Torniamo ancora a Primo Levi traduttore de “Il Processo”, quando dice: “amo e ammiro Kafka perché scrive in un modo che mi è totalmente precluso. Nel mio scrivere, nel bene o nel male, sapendolo o no, ho sempre teso a un trapasso dall’oscuro al chiaro (...) Kafka batte il cammino opposto: dipana senza fine le allucinazioni che attinge da falde incredibilmente profonde, e non filtra mai”. Che cosa ne pensa, alla luce del suo lavoro di traduzione? In che senso Kafka è un classico?«Un testo è classico quando ci pone continuamente delle domande, e ci costringe a dare delle risposte. A suo tempo mi sono posta la questione se accettare questo lavoro di traduzione: era un atto di presunzione, da parte mia, cimentarmi con un libro del genere? La risposta che mi sono data era che La metamorfosi ci pone delle interrogazioni, e la ragion d’essere della mia traduzione – di ogni traduzione, sta nel fatto che un testo classico si presta a letture sempre nuove, ha sempre qualcosa da dirci. Come lettori e come traduttori».Lei si congeda dal lettore spiegando che “ricorrere a una nota di traduzione è sempre il segno di una sconfitta” ma che in questo caso si imponeva qualche parola di “chiarimento e giustificazione” di cui il lettore non può che esserle grato. A proposito, e in chiusura di questa conversazione, pensa anche lei che uno dei tanti privilegi del lavoro di traduzione sia la gratitudine che si prova nei confronti di alcuni autori e dei loro libri?«La gratitudine del traduttore: certo. È stata fortissima. Apprendere qualcosa di sé e del mondo, trovare una cartina di tornasole del presente: la gratitudine è il primo sentimento che ho provato dopo essermi misurata con un testo del genere, dopo un’esperienza intellettuale così grande».
•••