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 2024  maggio 11 Sabato calendario

Intervista a Ciccio Baiano


Velocità, tecnica, senso del gol: cosa importa della statura? Ciccio Baiano ha pagato solo a undici anni quando, scricciolino, fu scartato dal Napoli, ma il pentimento azzurro arrivò prestissimo e lui indossò la maglia che amava. Da allora una fiaba popolata di campioni: Maradona padrino, Batistuta gemello, Bianchi Zeman e Sarri allenatori.
Il primo campo?
«L’asfalto di Soccavo, il mio quartiere: abitavo a 300 metri dal Centro Paradiso dove si allenavano i campioni. Poi entrai nella scuola calcio Chiummariello e in un torneo mi notò Abbondanza, allenatore del Napoli Giovanissimi: chiese a mio padre di portarmi a fare un provino, lui spiegò che l’avevo già fatto».
Non risbagliarono...
«Mi presero e feci tutta la trafila, giocando sempre con i più grandi. Il momento più bello lo scudetto Allievi nazionali vinto nell’84 con mister De Lella. In Primavera diventai capocannoniere con 22 gol».
E Maradona la ribattezzò Baianito…
«Giocavamo sabato a Soccavo, dove la prima squadra era in ritiro, e lui veniva sempre a vederci, seduto su una panchina dietro la porta. Mi chiamò così per la prima volta dopo una doppietta al Catanzaro e sentii i brividi: per i tifosi del Napoli era dio in terra, e io al San Paolo ero entrato per la prima volta a 5 anni. Fuoriclasse in campo e fuori: trattava noi Primavera alla pari».
Davvero le regalava le scarpette?
«Le cambiava spesso, ne aveva uno scatolone pieno: a me sembravano nuovissime, si accorse che le guardavo e mi disse, se volevo, di prenderle poiché tutti e due calzavamo quaranta. Lo feci, ma lui aveva la pianta larga e se le faceva confezionare su misura, così rinunciai perché a me il piede ballava. Mi chiese allora se avessi lo sponsor, risposi di no e promise di interessarsi: pochi giorni dopo avevo le mie Puma».
A 17 anni il debutto in prima squadra...
«Coppa Italia, derby con la Salernitana al San Paolo: un sogno realizzato grazie alla fiducia del tecnico Bianchi. In campionato esordii invece contro la Samp a Marassi: stadio del destino, ci ho giocato anche la prima partita in azzurro».
Un buon inizio...
«Ma avevo davanti Maradona, Careca, Giordano e Carnevale. Così cominciai a girovagare: Empoli, Parma e Avellino».
Tra un prestito e l’altro, la magia del Bernabeu.
«Coppa campioni, perdemmo 2-0: noi eravamo forti, loro fortissimi. Al ritorno segnò Francini, ma nella ripresa pareggiò Butragueño e svanì il sogno. C’erano 80 mila persone, calò un silenzio irreale».
Nel 1990 fu ceduto al Foggia.
«Avevo diverse richieste, ma quando chiamò Zeman non ebbi esitazioni: “Vengo da lei: il suo gioco per le mie caratteristiche è il massimo”. Mi chiamò “bomber” e rimasi stupito: ad Avellino non ero arrivato in doppia cifra».
Aveva ragione...
«Da centravanti, tra Signori e Rambaudi, segnai 22 gol in B, diventando capocannoniere, e 16 in A l’anno dopo: davanti solo Van Basten e Baggio. Feci contento il presidente Casillo che al primo incontro mi caricò di responsabilità: “T’ho pagato un sacco di soldi perché Zeman ti voleva a tutti i costi: devi fare una caterva di reti"»,
Gli allenamenti di Zeman sono leggenda...
«Realtà (sorride): gradoni scalati, corse estenuanti, scatti di 30 metri con Signori sulle spalle. Quando arrivammo a Campo Tures, il primo giorno di ritiro, ci fece correre per 10 chilometri dopo dodici ore di pullman. Era solo l’aperitivo, però valeva la pena. Al 70’, nelle partite, gli avversari boccheggiavano e noi dominavamo fisicamente. Anche a me è capitato, allo stremo, di vomitare».
Bussò la Fiorentina...
«Dieci miliardi di lire: mi sembravano eccessivi. In verità avevo raggiunto l’accordo con il Milan, dove però avrei avuto solo ritagli, così visti i buoni rapporti tra Berlusconi e Cecchi Gori, finii a Firenze con l’accordo di diventare rossonero dopo due anni: dovevo essere di passaggio e invece rimasi cinque stagioni, stavo bene e volevo continuità perché ero nel giro della Nazionale. Cecchi Gori resistette anche all’offerta della Lazio dove Zeman mi voleva con forza».
Primo anno: una retrocessione clamorosa.
«Eravamo secondi e perdemmo in casa con l’Atalanta: li avevamo presi a pallonate, ma era una di quelle partite stregate in cui non segni manco se durano due giorni. Cecchi Gori cacciò Radice con una scelta folle che ci condizionò. Perdemmo sicurezza e rotolammo in classica, poi subentrò la paura, non eravamo abituati a lottare per la salvezza».
Nell’estate del 1993 l’infortuno che le costò il Mondiale americano.
«A volte il destino è scritto. L’ultimo giorno di ritiro c’era un’amichevole, avevo chiesto un permesso perché era nata mia figlia e mi chiesero di giocare solo un tempo: mi infortunai mentre l’arbitro fischiava l’intervallo, sette mesi di stop e addio azzurro. Mi restano due partite, a Genova con la Norvegia e a Foggia con Cipro».
Con Batistuta eravate amici.
«Lo siamo ancora. Quando viene a Firenze mi chiama sempre per organizzare il padel e andare a cena. Mi misi a sua completa disposizione ed ero felice quando segnava: tutta la squadra giocava per lui, era un fuoriclasse nel suo ruolo».
Di Rui Costa è stato... insegnante
«Quando arrivò venne in camera con me: aveva sempre il vocabolario perché voleva imparare l’italiano, mi chiedeva di correggerlo e aiutarlo».
Ha vinto da protagonista Coppa Italia e Supercoppa.
«Ma senza giocare le finali, saltate entrambe per colpa del malleolo. Nelle città dove vincere è raro le emozioni sono più forti. E la gioia negli occhi dei tifosi indimenticabile».
Da Firenze al Derby County...
«Si fece male Sturridge e cercavano un attaccante: Eranio, che giocava lì, fece il mio nome. L’impatto non fu semplice, il gioco mi penalizzava: ne parlai con Stimac, il capitano croato che parlava italiano e ci faceva un po’ da traduttore, lui riferì al mister e cambiammo modulo, da partner di Wanchope diventai trequartista nel 3-4-1-2. Da neo promossi sfiorammo l’Uefa, l’anno successivo arrivammo ottavi».
Nostalgia canaglia...
«Volevo tornare, c’era il Bologna ma non trovò l’accordo economico, accettai la Serie B a Terni dove mi chiamò Guerini. Poi decisi di non allontanarmi più da Firenze: due anni a Pistoia in B, poi la C2 a San Giovanni Valdarno».
Promosso con Sarri...
«Lo chiamavamo martello, dedicava sedute infinite agli schemi su angoli e punizioni: una ventina ciascuno. L’anno del salto in C1, i due difensori centrali fecero uno 7 gol e uno 6».
Alla Sangiovannese ha avuto come tecnico anche Sannino
«Finita la carriera, volevo allenare e lui mi offrì la possibilità di cominciare nel suo staff. Ci siamo separati quando ha scelto l’estero, non avevo voglia e ho cercato la mi strada. Quest’anno ho guidato l’Aglianese, in D, l’anno prossimo vedremo. Il professionismo è un sogno ma vivo alla giornata, cercando di dare sempre il massimo».
Il calcio di oggi?
«Lo trovo meno tecnico. E sorrido quando sento dire che ai miei tempi andavamo a due all’ora: riguardino il Foggia di Zeman, trent’anni dopo nessuna squadra, tranne l’Atalanta, ha quel ritmo». —