il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2024
Il corpo di Elizabeth
Il potere logora chi non si cala le mutande. Perché chi le tiene su regna cent’anni, ma poi si deprime. Cristina Crippa e Elio De Capitani firmano la regia a quattro mani de I corpi di Elizabeth (una produzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile del Veneto) a partire dal testo della drammaturga inglese Ella Hickson che riscrive la vita della regina d’Inghilterra Elisabetta I Tudor con gli occhi di oggi. Un allestimento storico quanto basta a sovvertire con malizia il dogma andreottiano.
Ne esce una frizzante commedia noir, anche se a tratti somiglia più a una fiction televisiva con scorci meta-teatrali. È divisa pure in “puntate”. Una contaminazione in linea con la sperimentazione che l’Elfo porta avanti da tempo. L’allestimento è infatti molto scenografico; divertente, leggero, spigoloso, intricato. Sul palco, Elena Russo Arman è sia Elizabeth (regina) che la matrigna Catherine Seymour e la sorellastra Mary Tudor. Maria Caggianelli Villani interpreta Elizabeth (principessa) e la cortigiana Katherine Grey; Cristian Maria Giammarini è l’austero consigliere Cecil, mentre Enzo Curcurù passa dal marpione Thomas Seymour al focoso amante Robert Dudley.
Ne I corpi va in scena il potere assoluto, slegato da tutte le leggi: anche quelle della carne, le più irresistibili. Ma è tutta colpa di mamma e papà. Con la mente dello spietato Enrico VIII e il cuore votato alla memoria della sventurata Anna Bolena, l’ultima sovrana dei Tudor seduce con una mano e graffia con l’altra. Nelle notti insonni da quattordicenne riesce a puntare sempre più a Sud di Thomas Seymour, il marito della matrigna Catherine, con la stessa facilità con cui lo incolpa di fronte al tribunale di averla violentata, salvandosi la vita.
Lei che ha dato il nome a un’epoca, senza aver dato il nome a un figlio, usa l’astuzia per castrare il patriarcato e schiaffeggiare la dipendenza affettiva. Si trova però a fare i conti con la morale cattolica pur essendo protestante. Che poi è un po’ quello che la nonna chiede al pranzo di Natale: “E il nipotino quando arriva?”, solo che questa volta rotola qualche testa. Vendicativa, sagace, intelligente, arrogante, bugiarda e gelosa (“scopare senza il mio permesso è alto tradimento!”, rimprovera a lady Grey), l’Elisabetta di Crippa e De Capitani prova a ripulirsi dalla verginità mariana che il cinema le ha cucito addosso e recupera un corpo desiderante.
Risultato: tutti pazzi per Liz I. Per la chioma rossa, o per il blasone. Forse per entrambi. E no, le cicatrici del vaiolo non si vedono (e nemmeno il piombo per coprirle). Attorno alla regina brulica un turibolo di cortigiani accecato dalla sua carnalità intoccabile, l’arma più tagliente. Promette all’amante Robert un amore solenne, non consumato (forse): “Tu sei la mia debolezza. La mia grande voglia. Il mio punto più debole. Evaporare, dissolvermi nel torrente che sei tu. Ecco cosa desidera il mio corpo quasi ogni giorno, ma devo resisterti per continuare a esistere”.
Tra una preghiera e una poesia, Elizabeth soffre e insieme si nutre delle pulsioni che respinge. Vuole essere unica nel suo genere, quello femminile, vorace di uomini e di libertà. E l’unico metodo di conservazione è quello di non dividere il potere con nessuno. Dunque neanche il letto.