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 2024  maggio 11 Sabato calendario

Intervista a Don Winslow

TORINO
«La vera crime story americana si chiama Donald Trump. Bisogna in ogni modo impedirne la seconda serie».
Don Winslow si nutre di realtà da almeno trent’anni e all’Arena Robinson Repubblica ha confessato di non essere mai riuscito a inventare una trama nera come quella dell’uomo che potrebbe ridiventare presidente degli Stati Uniti. Al punto di decidere di non scrivere più per dedicarsi, da oggi a novembre, a un unico scopo: contrastare Trump.
Una minaccia solo per gli Stati Uniti?
«No, un enorme pericolo per il mondo intero, dove purtroppo le destre stanno crescendo di giorno in giorno. Ma, per noi statunitensi, il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca significherebbe la fine della democrazia. Può accadere, purtroppo».
Davvero le parole di uno scrittore possono arginare un’onda simile?
Qual è il compito dell’intellettuale, oggi?
«Grazie per la gentilezza, ma non penso davvero di essere un intellettuale. Mi considero solo uno scrittore di gialli che ha avuto più successo di quanto meritasse. Il primo compito di uno scrittore è scrivere bene. Il secondo, però, è far sentire la propria voce: le parole sono il mio mestiere e io ho deciso di metterle a disposizione del pubblico insieme alla mia esperienza».
Sembra un’esortazione civile.
«Lo è. Nei mesi che ci dividono dalle elezioni, ci attende una lotta da combattere tutti insieme e con tutte le nostre forze».
Ci dica che il suo addio alla letteratura dopo la trilogia che si chiude con “Città in rovine” (HarperCollins) è una fake news...
«Sorrido e di nuovo ringrazio ma no, confermo che questa notizia è vera.
Ho avuto una carriera formidabile che mai e poi mai avrei immaginato così e non mi sembra giusto spingere la fortuna troppo in là. Scrivo trilogie criminali da trent’anni, può bastare.
Anche perché, come dicevo, esistono al momento altre priorità».
Ma dopo le elezioni, nulla le impedirebbe di rimettersi al lavoro.
«Non sarà un lavoro, sarà scrittura. E lo sarà soltanto per me».
La sua ultima opera è stata definita un’Iliade noir: qual è il suo rapporto con la grande tradizione?
«Purtroppo ho scoperto i classici tardi, troppo tardi. Questo non mi ha impedito di ritenerli una fondamentale forma di ispirazione: i classici dell’antichità greca e latina assomigliano tantissimo non solo alla storia criminale dell’America, ma alla nostra storia vera e propria. Nel mio piccolo, ho provato a raccontare questa storia. Spero di esserci riuscito».
Perché le trame criminali ci coinvolgono tanto, nei libri e sullo schermo? Eppure, nessuna personanormale ha a che fare con il narcotraffico messicano o con Gomorra.
«Il crimine è l’accelerazione vorticosa di molte pulsioni umane, spinte all’estremo. Il dolore, la brama di potere e di denaro, il desiderio, l’onore, il tradimento, anche l’amore.
Nel caso di quest’ultimo lavoro, l’argomento che mi stava a cuore è la fedeltà. A cosa siamo fedeli o infedeli? A quale prezzo decidiamo di esserlo, oppure no?».
Ha ancora senso la classificazione tra generi letterari? Possiamo forse definire “Delitto e castigo” un noir, oppure “La Divina Commedia” un fantasy?
«Forse sì e forse no, perché i grandi libri non sono mai una cosa soltanto.
Di certo è sbagliato stilare categorie di merito tra un genere e l’altro: un conto sono le differenze, un altro le gerarchie. Il noir non è un genere minore, anche se qualcuno lo pensa.
Io scrivo storie senza curarmi di certi giudizi, e sono felice così».
Ritiene che i libri possano
migliorare il mondo?
«Oh sì, ci credo e me lo auguro. I libri moltiplicano il numero delle nostre vite e dei nostri sguardi: spalancano universi. Io, per esempio, questa mattina in apparenza mi sono svegliato a Torino, città elegante e deliziosa. In realtà, mi trovavo a Londra ed era l’Ottocento. Questo perché mi ero appena messo a rileggere Il Circolo Pickwick di Dickens: vi garantisco che le prime trenta pagine sono una meraviglia assoluta».
Don Winslow, ci racconta come funziona la sua fabbrica di scrittura?
«Si tratta di lavoro, tutto qui. Mi sveglio ogni mattina alle cinque, mi concedo una robusta colazione, leggo il giornale. E poi nessuno pensi che io vada a farmi una bella passeggiata in un giardino fiorito, dove mi verrà incontro la Musa della letteratura per dettarmi le prossime pagine. No davvero! Mi siedo al tavolo, accendo il computer e scrivo dall’alba al tramonto: qualcosa di noiosissimo anche solo a parlarne.
Però, ho un metodo rigido: scrivere tanto, perché alla fine qualcosa di buono rimanga. La misura minima è cinque pagine quotidiane, quelle residue, intendo. Per l’ultima trilogia, penso di avere gettato nel cestino non meno di quattrocento pagine, ma direi a occhio molte di più».
Ci farebbe visitare la sua stanza e la sua testa?
«La mia stanza è un luogo semplice e pieno di musica, ad esempio quella di Bruce Springsteen, perché anche la scrittura è una danza nel buio. Sul tavolo ho il tablet, il computer, la tastiera, carta e penna. Ah, dimenticavo, accanto alla scrivania c’è unpunching ball».
Scrivere è fare anche un po’ a cazzotti?
«Un po’ sì. È una fatica dura, uno sforzo fisico e non solo mentale».
E nella sua testa cosa c’è?
«Lì dentro non vorrei entrare con una torcia elettrica neppure sotto minaccia di una pistola».
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Carlo Baroni sul Corriere della sera

TORINO C’è un’America che si racconta senza aggettivi. Solo guardandola. Don Winslow lo sa fare. Città in rovine chiude la trilogia di Danny Ryan. Un eroe che forse gli assomiglia. Nell’approccio all’esistenza, nel disincanto verso il Paese che lo attrae e lo respinge. In quell’essere americano che sa ancora di frontiera. Di spazi da raggiungere piuttosto che da conquistare. Di pagine che si scrivono da sole, basta annusare il vento. E prenderne la scia.

Conta più il talento o la passione per diventare uno scrittore di successo?

«La passione. Se non c’è passione, allora il talento non servirà a nulla. Se hai dieci di talento e otto di passione, vince sempre e soltanto la seconda».

E nella vita?

«Ancora la passione. Non c’è partita».

Lei ama correre. È un modo per scappare o per andare verso qualcosa?

«Oddio. In realtà ormai più che correre cammino. Ma il principio è lo stesso. E vale per un’altra attività fisica che pratico, il nuoto. Che cosa succede quando corri (cammini) o nuoti?».

Che cosa succede?

«C’è un ritmo simile a quello della scrittura. Una sorta di metrica. Scandisci il tempo con i tuoi passi o le tue bracciate. Quando corro o nuoto io parlo con me stesso. Intavolo dialoghi. I miei libri nascono così. Correre mi ispira, mi fa nascere idee, storie»

Come affronta il rifiuto?

«Mi è successo tante volte all’inizio di questo mestiere. Mi rifiutarono qualcosa come quindici editori. Tante volte mi hanno detto di lasciar perdere. E sa che cosa ho fatto?»

Ci ha riprovato.

«Proprio così. Pensavo: sono loro che si sbagliano. Il rifiuto mi dava una motivazione in più. “Perché non mi capiscono?”, mi chiedevo».

Che cos’è il Male?

«È la scelta deliberata di ferire un altro».

Nei suoi romanzi i protagonisti non sono quasi mai «wasp», i bianchi anglosassoni protestanti padroni del Paese: al centro ci sono le comunità di latinos, di irlandesi, di italiani.

«Il primo elemento comune che mi viene in mente è che sono tre culture di matrice cattolica. E anch’io ho questa matrice. Ci sono nato e cresciuto. Ma in questo caso contano gli argomenti delle storie che ho scelto di scrivere. Quando ho pensato a una trilogia sui narcos era inevitabile raccontare la comunità messicana che soffre questo problema. Scrivere del Dipartimento di polizia di New York significa accendere i fari sulle famiglie irlandesi piene di uomini e donne in divisa. E così per la mafia per una certa comunità di italiani. Senza cadere negli stereotipi».

Lei parla degli ultimi, delle persone messe ai margini. Costrette, talvolta, a delinquere. Temi cari a John Steinbeck.

«Il paragone è ardito. Devo prendere le distanze da una leggenda come Steinbeck. Non sono alla sua altezza. Sinceramente. Non riuscirei mai a scrivere come lui. Le mie sono storie del crimine scritte il meglio che posso. Se poi i miei romanzi hanno ricadute sociali non posso che esserne contento».

Nella nuova trilogia il protagonista ricorda Enea.

«È un archetipo di tutti i tempi. Forse si adatta bene all’American way of life. Dell’uomo che si realizza da solo. Che nasce povero e diventa milionario».

Anche Donald Trump è diventato ricchissimo.

«Lui è un teppistello. Niente di eroico».

Vede qualche Enea in questo mondo?

«Se c’è non lo conosco».

«Città in rovine» sarà il suo ultimo libro. Ma uno scrittore va in pensione?

«Non ho ancora fatto un piano pensionistico... Però con i diritti in tv e al cinema dei miei libri ho messo da parte qualche soldo... Penso di riuscire a cavarmela. Continuerò a scrivere. Ma in maniera diversa».

Chi ammira oggi?

«Il Dalai Lama. Bruce Springsteen. Michelle e Barack Obama. Joe Biden. Sì, sono convinto che la sua elezione sia stata un bel segnale per il Paese. Poi ci sono gli altri».

Chi sono?

«La gente sconosciuta che non appare sui giornali. Gli eroi silenziosi. Persone che ammiro. Posso citare uno scrittore che invidio?»

Certo.

«Richard Russo (vincitore del Pulitzer nel 2002, ndr): vorrei avere la sua verve e capacità di raccontare».

Consigli a un aspirante romanziere?

«Leggi, leggi, leggi. E scrivi, scrivi, scrivi. Solo se leggi puoi migliorare. Lotta e non arrenderti. E questo vale anche per la vita».

Che cosa sta succedendo all’America oggi?

«Quanto tempo ho per rispondere?»