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 2024  maggio 11 Sabato calendario

Il baratto tra le destre per cambiare le regole e piegare la democrazia


C’è da raccontare il più grande assalto alla Costituzione italiana. Micidiale combinato della riforma costituzionale detta premierato, cara a Giorgia Meloni, e dell’autonomia differenziata, cara a Matteo Salvini. Due provvedimenti ideologici, scombinati e pericolosi, per giunta messi insieme dalla logica del baratto anziché da un ridisegno organico dell’architettura istituzionale. Ma qui è necessaria una precisazione. Non è sbagliato in sé cercare di migliorare la Carta dove può essere utile e necessario, il problema è il modo e il merito del tentativo in atto. Ma prima di arrivarci, può essere utile una premessa.
Giorgia Meloni non è la prima politica a voler cambiare le regole del gioco a suo uso e consumo. Però è la prima ad avere una decisiva motivazione supplementare. Il desiderio di stravolgere la Carta e la forma di governo per costruire uno schema personale e monocratico la accomuna ad altri predecessori; la volontà di rivincita sul dettato costituzionale la distingue dagli altri. Meloni, la ragazza che minorenne si iscrisse alla sezione romana di Garbatella del Movimento sociale italiano abbracciandone il revanscismo politico e le recriminazioni storiche, ha l’occasione sognata dai suoi padri politici: abbattere il simbolo che per decenni i missini italiani hanno considerato lo stigma sulle loro origini. La costituzione antifascista va cassata, sfregiata, archiviata. La sua riscrittura agitata in aria come bottino di guerra e segno del nuovo comando.
Cosa prevede il cosiddetto premierato? Un presidente del Consiglio eletto direttamente dai cittadini e in carica per 5 anni. Con quale legge elettorale, non si sa, va ancora scritta. Con quale meccanismo che garantisca la maggioranza in Parlamento, è altro punto di domanda, per ora si ragiona di un abnorme premio di maggioranza del 55%. Con quali contrappesi, è inutile chiederlo, non sono previsti. Vietato al Parlamento incaricare un premier che non sia quello indicato nelle urne. Il presidente della Repubblica passa da arbitro del sistema a spettatore. Il premier comanda senza intralci su un Paese nel frattempo disarticolato da un provvedimento parallelo, l’autonomia differenziata, che dietro le fumisterie leghiste nasconde il messaggio alle comunità locali: arrangiatevi. Per qualcuno è un’opportunità, per altri è il baratro. La prima vittima designata è il sistema sanitario nazionale, già piegato da anni di incuria, definanziamento e regalìe al sistema privato.
Si trasformano le elezioni in una riffa dove uno solo vince tutto e si espongono le istituzioni alle scorrerie di qualunque barbaro di passaggio. Non c’è più filtro. È la realizzazione di un rozzo progetto plebiscitario mascherato da trionfo della volontà popolare. Gli elettori – anzi, una minoranza di elettori trasformata in maggioranza dagli artifici di una legge elettorale ancora da scrivere – eleggono un primo ministro che, da quel momento, agisce senza più controllo. Una delega al buio. Non è il presidenzialismo, sistema che in molti Paesi funziona con precise regole e paletti, sebbene i casi di S tati Uniti e Brasile dimostrino quanto sia esposto a forzature in questa epoca di democrazia fragile e assediata. Si tratta di una versione degenerata dell’alternanza, risolta in un brutale scontro tribale alle elezioni al termine del quale una delle tribù si impossessa delle istituzioni senza che nessuno, né il Quirinale e tanto meno il Parlamento, possa più interferire in alcun modo.
Nella commissione Affari costituzionali la quasi totalità dei costituzionalisti auditi, senza differenza di orientamento e formazione, ha bocciato senza appello la riforma. L’ex presidente della Corte costituzionale Ugo De Siervo: «Un progetto di legge quasi eversivo per alcuni aspetti ed estremamente debole per altri». Gustavo Zagrebelsky, altro presidente emerito della Consulta: «Una riforma costituzionale incostituzionale». Il successore Giuliano Amato: «L’elezione diretta del premier è una alterazione degli equilibri, incide negativamente sul capo dello Stato come figura di garanzia unitaria». E ancora, Fulco Lanchester: «Il testo confligge con gli standard del costituzionalismo democratico, basato sull’equilibrio e la separazione dei poteri». Gaetano Silvestri: «Il premio di maggioranza crea un governo figlio della calcolatrice più che della volontà degli elettori». Invano, vista la ricettività degli auditori, Gaetano Azzariti ha fatto notare che il potere debole «oggi è quello del Parlamento». Forse per mancanza di testimonial la presentazione della riforma in Parlamento si è fregiata, pochi giorni fa, del contributo intellettuale del cantante Pupo: «Mi piace il premier forte, anzi fortissimo».
Sul consapevole, scientifico attacco alleprerogative del capo dello Stato si assiste allo spettacolo più ipocrita tra quelli messi in piedi dal governo per difendere la riforma. Ancora pochi giorni fa Meloni è tornata per l’ennesima volta a negare che la riforma incida sui poteri del Quirinale. Persino i pochi costituzionalisti con un giudizio benevolo sull’impianto della riforma smentiscono la menzogna della presidente del Consiglio. Dice Carlo Fusaro: «Chi considera utile rafforzare il presidente del Consiglio, con onestà intellettuale, deve riconoscere che, comunque e con qualunque formula, ciò è semplicemente impossibile senza che ne derivi un impatto sul ruolo dei partiti in Parlamento e sul ruolo del presidente della Repubblica».
Ecco, il ruolo dei partiti. Indeboliti da lustri di svuotamento ideale e di reazionarie campagne sulla casta, i partiti devono trasformarsi definitivamente in comitati elettorali al servizio del candidato – “Vota Giorgia”, lo slogan della candidata Meloni alle Europee è l’ultima prova generale – mentre il Parlamento, già trasformato in raduno di nominati per grazia ricevuta e succursale di conversione decreti, diventa l’equivalente di un consiglio comunale. Si poteva trasformare quell’aula sorda e grigia in un bivacco di manipoli, e sta per accadere.
La riforma di Meloni è subdola. Più ancora che per i suoi obiettivi evidenti, per la capacità di cavalcare e torcere a proprio vantaggio trent’anni di propaganda anti-politica. Non si è tanto detto, anche a sinistra, che ogni governo nato da accordi parlamentari è un inciucio? Non si è tanto detto, anche a sinistra, che è fondamentale conoscere il nome di chi governerà l’Italia cinque minuti dopo che si è concluso lo spoglio? Ora arriva Meloni, a trasformare in realtà tutti i dogmi del più ottuso furore maggioritario, pronta a rinfacciare agli avversari, non senza qualche ragione, di stare avverando i loro annosi desideri.
Il resto ce lo mette Salvini, con un’altra riforma pasticciata e incompleta. Nel nuovo regime di autonomia come farà lo Stato centrale a garantire che a tutti i cittadini siano garantiti pari servizi e opportunità? Lo schema leghista si basa su un’impostura ideologica: la spesa sociale per la sanità, il welfare, non è un trasferimento di risorse dalle Regioni ricche a quelle povere bensì tra cittadini abbienti e cittadini meno abbienti. Vale per l’autonomia lo stesso rischio descritto sul premierato: in tempi di vacche grasse, potrebbe essere un sistema persino virtuoso, che spinge i governi locali all’efficienza e alla responsabilità e i cittadini della Regione a premiarne o punirne l’opera con il voto.
Ma che succede nei territori dove la situazione è così degradata da non dipendere più, almeno nell’immediato, dal buon operato dell’amministrazione? E che succede nelle fasi di crisi e congiuntura economica? Se il bilancio dello Stato dimagrisce, chi garantisce ai cittadini uno standard minimo? In burocratese si chiamano Lep, livelli essenziali di prestazione, e non sono ancora stati messi nero su bianco, sebbene rappresentino un aspetto fondamentale. Non solo, la loro definizione presuppone l’individuazione delle risorse necessarie a fornirli, questi livelli essenziali. Dove le troverà un governo alle prese con i vincoli di bilancio e una crescita inchiodata allo zero virgola? O aumentando le tasse, cosa che la destra non vuol fare, o tagliando la spesa, e quindi potenzialmente altri servizi. Un circolo vizioso. Un incubo che agli elettori viene presentato come il sogno della sovranità popolare. “Vota Giorgia”, e buona fortuna a tutti.