Domenicale, 5 maggio 2024
La favola di Amore e Psiche
È una delle favole più belle del mondo, quella di Amore e Psiche. Ce l’ha tramandata lo scrittore africano, ma latino di lingua Apuleio. Nelle sue Metamorfosi, note anche come L’asino d’oro, occupa uno spazio enorme tra il IV e il VI libro.
Riprendendo un perduto originale greco, Apuleio narra in questo romanzo le avventure di Lucio, un giovane animato da insaziabile curiosità. Trasformato per errore in asino, dovrebbe mangiare delle rose per tornare uomo, ma viene portato via da ladroni e usato come bestia da soma. Nel covo dei briganti conosce Carite, una giovane rapita a scopo di riscatto; la vecchia governante, per consolarla, le racconta la favola di Amore e Psiche: destando nel lettore i sentimenti più contrastanti: incanto e stupore davanti a una vicenda di cui sembra protagonista indiscusso l’eros, ma anche perplessità, dubbi, persino disappunto. Perché Psiche in greco vuol dire «anima», e quindi Apuleio avrà voluto suggerire una qualche dimensione morale, o magari filosofica, perfino teologica.
Psiche, ci dice la storia, pare più bella di Venere. E si sa, le dee dell’Olimpo sono gelose, soprattutto riguardo alla bellezza. L’«anima» pagherà cara la propria beltà, e anche la sua curiosità.
A Psiche è infatti proibita la vista dell’essere che l’ha sposata, pena la separazione immediata da lui. Ma Psiche, come Lucio, non resiste alla curiosità e, spinta dalle sorelle, spia Amore mentre dorme. Quel che vede è una vera e propria rivelazione: di un essere così bello da far tremare la candela che Psiche usa per guardarlo. Delle gocce di cera bollente cadono dal lume sul corpo dello sposo, Amore si sveglia e fugge. Disperata, Psiche si dà a cercarlo, mentre lui si rifugia, ed è in effetti prigioniero, nella dimora di sua madre, Venere. La quale punisce la fanciulla con ogni sorta di angherie e incaricandola di missioni sempre più difficili e pericolose. Alla fine, è lo stesso Cupido a volar via dal palazzo materno e implorare Giove di aiutarlo. Il maggiore degli dèi decide che tra i due debba essere celebrato un matrimonio olimpico, fastoso e solenne. Amore e Psiche, finalmente uniti, genereranno Voluttà.
Di questa lunga storia Barbara Castiglioni, in un agile volume della serie “Variazioni sul mito” della Marsilio fondata e curata da Maria Grazia Ciani, ci offre, oltre a quella di Apuleio, sei varianti: di La Fontaine, Keats, Heine, Leopardi, Pascoli e Marina Cvetaeva.
E il tutto fa precedere da una introduzione di una cinquantina di pagine – distesa, ragionata, affascinante – nella quale analizza episodi e versioni all’insegna delle parole della Cvetaeva, «l’invisibile, noi l’amiamo in eterno perché è l’assente».
Nel corso dei secoli, quasi venti ormai, dalla sua comparsa in Apuleio, la favola ha infatti ricevuto un’infinità di interpretazioni, ispirate al Neoplatonismo o al Cristianesimo. Apuleio stesso era fervente neoplatonico e aveva composto un De deo Socratis e un De Platone et eius dogmate, e dette alle Metamorfosi un finale diciamo “mistico”, con l’iniziazione di Lucio tornato uomo ai misteri prima di Iside, poi di Osiride. Il merito di Castiglioni è quello di non inseguire l’esegesi moralizzante o allegorica (da Fulgenzio in poi, come l’autrice mostra in un singolo paragrafo, esse si moltiplicano esponenzialmente, e l’unica che io conosca che sia dotata di una qualche chiarezza è del Boccaccio), ma invece di guardare fissamente le maglie letterarie, a cominciare dai precedenti più antichi di Apuleio, come per esempio Meleagro, e poi soprattutto i successori, sicché fra i testi riportati nella loro interezza e quelli menzionati nell’Introduzione viene a crearsi una rete interattiva, fatta – cito solo alcuni esempi – del poema cavalleresco medievale Partenopeo di Blois, del Boiardo, di Calderón, Molière, Stendhal, Poe, Proust, per non parlare delle versioni per musica e di quelle, qui impossibili veramente da affrontare senza illustrazioni, delle arti visive.
L’“enigma dell’amore”, lo chiama Barbara Castiglioni, e a ragione. Dai testi che antologizza è appunto ciò che emerge: da alcuni, credo, più che da altri. Personalmente, provo una certa allergia verso la pur notevole, delicata grazia di La Fontaine, ma basta leggere pochi versi dell’ Ode to Psyche di Keats per sentire appieno la forza che ne sprigiona, quando il sogno rivela «due splendide creature / distese nell’erba folta / sotto un tetto che sussurrava / foglie e fiori tremanti, / vicino a un ruscello nascosto».
Eccoli, tra un trionfo di fiori freschi e profumati, «in un intreccio di braccia ed ali», labbra che non si toccano at tender eye-dawn of aurorean love: «nella tenera alba dell’amore». Non è l’Urna greca e neppure l’Usignolo, ma è pur sempre il pindarico, estatico Keats, uno dei tre o quattro maggiori poeti romantici d’Europa insieme a Leopardi (qui presente con un brano dello Zibaldone), Hölderlin e Shelley. Gli si avvicina, a piccoli passi, Heine. Poi, dopo il lungo pezzo pascoliano, esplode la Cvetaeva, che chiude il libro con la strofa più bella e più disperata: «Vestimi del tuo splendore, / Abbi pietà e salvami. / E questi poveri cenci sfatti / Portali in sagrestia».
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Barbara Castiglioni
(a cura di)
Amore e Psiche.
L’enigma dell’amore
Marsilio, pagg. 262, € 18