Domenicale, 5 maggio 2024
L’importanza della materia
La parola d’ordine del ventunesimo secolo sembrerebbe essere “smaterializzazione”, a descrivere un fenomeno che vien fatto coincidere con la digitalizzazione. In effetti la migrazione digitale vien presentata come un modo per liberarsi dei vincoli materiali: niente più faldoni, ma repertori ben organizzati in una mini-chiavetta; non stampate questa mail, salvate un albero; la posta arriva in una frazione di secondo – chi si ricorda di tutta la procedura di scrivere, imbustare, mettere il francobollo, imbucare; ci vediamo su Zoom così evitiamo ore di attesa in aeroporto, voli intercontinentali, e via dicendo. Portato al parossismo, questo modo di raccontare le cose produce l’idea transumanistica che possiamo anche liberare la nostra mente dal cervello e “caricarla” su una chiavetta (o sul cloud: per l’appunto, l’immagine eterea, immateriale della “nuvola”).
Ma, contrariamente all’opinione comune, non ci stiamo affatto liberando dalla materia. Anzi, non solo ne dipendiamo tanto quanto – se non più – di prima, ma ne facciamo un consumo sempre più smodato, che non accenna affatto a diminuire, come ricorda l’archeologo Chip Colwell in So Much Stuff (University of Chicago Press, pagg. 324, $ 29) e che crea tensioni geopolitiche, oltre a impattare la salute del pianeta. La politologa Jane Bennett aveva difeso una forma di neomaterialismo in Materia vibrante (Timeo, pagg. 258, € 22), attribuendo concettualmente alla materia una forma di vitalità per rendere conto delle complesse interazioni tra gli esseri umani e gli artefatti che costruiamo e che popolano il nostro ambiente. Se il suo obiettivo erano stati i rifiuti, l’elettricità, il cibo e i metalli, Ed Conway, giornalista britannico, sottolinea la centralità della materia prima, in un libro, La materia del mondo (Marsilio, pagg. 444, € 20) organizzato intorno a sei materie fondamentali: sabbia, sale, ferro, petrolio, rame e litio. Il litio fa molto XXI secolo in questa lista che per tutto il resto sembra riportarci ai secoli se non ai millenni passati, a fonderie, miniere, cave a cielo aperto.
Perché non ci sono scorciatoie: qualsiasi cosa vogliamo fare, la facciamo con della materia, e utilizzando dell’energia che produciamo e spostiamo grazie sempre e ancora a della materia. Il rame e il petrolio sono gli attori più ovvi in questo scenario, ma Conway giustamente apre il suo lavoro sottolineando l’enorme dipendenza che abbiamo da sabbia, sale e ferro.
Parliamo un attimo proprio della sabbia. Anzitutto è vero che la sabbia è un po’ dappertutto, ed è abbondante, si pensi al Sahara, ma non tutte le sabbie nascono uguali; la loro composizione, oltre al silicio, e struttura, come la forma dei granelli, varia enormemente in diverse zone geografiche. In secondo luogo l’impatto ambientale della sabbia è poderoso: a oggi ci sono circa 80 tonnellate di cemento a persona sul pianeta, e «ogni anno si produce cemento a sufficienza per coprire l’Inghilterra», scrive Conway. La sola Cina ha colato più cemento «tra il 2018 e il 2020 di quanto ne sia stato colato dagli Stati Uniti... dal 1865 a oggi». In terzo luogo è piuttosto complicato trasformare un prodotto così semplice, abbondante ed economico come la sabbia in un qualcosa che abbia un valore. Il legame complicato tra disuguaglianze geografiche e abilità tecniche si manifesta per esempio nella storia dei vetrai di Murano, che se pur utilizzavano sabbia del Lido, a portata di mano, dovevano unirla a ceneri di soda egiziane, sale dalmato, gesso vicentino, e finirono con il rifornirsi di ciottoli di quarzo macinati del letto del Ticino. Fino alla scoperta della cava scozzese di Lochaline (98% di silicio) le sabbie più pure, composte al 95% di silicio, si trovavano nella foresta di Fontainebleau (usate anche per il vetro della la Piramide del Louvre); queste ultime permisero alla Gran Bretagna di spezzare il monopolio tedesco delle lenti Schott-Zeiss che avevano dato alla Germania una superiorità iniziale nella Prima Guerra Mondiale: non combatti una guerra di artiglieria senza dei cannocchiali potenti.
La storia è peraltro sorprendente: in deficit di ottiche, la Gran Bretagna stipulò un accordo per l’acquisto di lenti, cannocchiali e persino mirini... dalla Germania. Che in cambio richiese gomma per i pneumatici e i tubi di alimentazione dei suoi veicoli militari. Conway scrive che «la carenza di questi materiali venne percepita come talmente critica che le grandi potenze erano pronte a sospendere la regole normali della guerra». In realtà la cosa da dire è che la guerra sembra voler andare avanti a ogni costo e senza scrupoli; se la mancanza di gomma da un lato, di vetro dall’altra, blocca la guerra, allora forniamo quel che manca al nemico! (Il caucciù ha una sua storia: Hevea brasiliensis venne letteralmente rubata al Brasile dalla Gran Bretagna, che la coltivò nelle colonie della Malesia).
Lochaline venne aperta nel 1940 e svolse un ruolo essenziale nella Seconda Guerra Mondiale, perché la Francia era occupata. Oggi è proprietà di Minerali Industriali e del gruppo giapponese NSG. Il lettore scoprirà decine di nomi di ditte assolutamente centrali nei processi di estrazione e di trasformazione delle materie prime, nomi come ARM, ASM, British Salt, CATL, Cleveland Potash, FCAB, Ferroglobe, GEM, ICI, Lam, Linto, NSG, Rio Tinto, Ronbay, Sabic, Shagang, Sibelco, SMIC, TSMC, Veeco, Whan-O, che non fanno le prime pagine dei giornali come le Google, Facebook, Apple, e oggi anche Tesla, ma che permettono a queste semplicemente di vivere.
Ci sono alcuni temi appena sfiorati (come l’acqua e i fondali marini), e un problema più generale avrebbe meritato di venir messo sul tappeto: nessuno paga il pianeta per quello che si estrae; nessuno si sente in dovere di compensare o riparare le cicatrici dell’estrazione. La forza del libro di Conway è nel mostrare le interdipendenze tra estrazione e produzione a livello globale; non le vediamo perché le diamo per scontate. Potremmo parlare di una vera e propria sociochimica, se non addirittura di sociogeochimica. Le sabbie di Lochaline finiscono in parte in Norvegia dove vengono usate per produrre carburo di silicio utilizzato per gli inverter delle Tesla. L’Indonesia draga le sue isole per fornire sabbia a Singapore che strappa al mare 25 kmq all’anno; il Marocco rimpingua le spiagge delle Canarie. Un libro intero potrebbe essere scritto sul modo in cui il silicio finisce, dopo un giro del mondo dei semilavorati, a far parte dei microprocessori che troviamo ovunque, ma una frase potrebbe riassumerlo: gli autarchici, anche gli autarchici europei, sono ingenui. «Quando i politici parlano di rimpatriare le filiere, si tratta spesso di profonda ignoranza di quello che avviene là fuori, nel Mondo Materiale».