Corriere della Sera, 10 maggio 2024
Breve storia della follia
Doveva essere abbastanza praticata, tra Medioevo e Rinascimento, la segregazione acquatica, a giudicare dalla diffusione dell’immagine della stultifera navis. In apertura della sua Storia della follia, Michel Foucault evoca infatti la nave dei folli ovvero «quello strano bateau ivre che fila lungo i fiumi della Renania e (appunto) lungo i canali fiamminghi». La nave discriminatoria non riguardava solo la follia e non era soltanto una creazione letteraria, tant’è vero che l’emarginazione in acqua applicata ai miserabili, meglio se malati, viene rievocata nel Novellino, la raccolta toscana risalente alla fine del Duecento, dove si narra che nella grande carestia del 1171 i poveri furono imbarcati a Genova su un vascello per essere deportati e isolati in Sardegna (mutatis mutandis, non sarà difficile trovare analogie con l’attualità…). Sono secoli in cui ogni forma di disturbo mentale veniva considerata in qualche modo pericolosa: dalla malinconia all’accidia al mal d’amore all’ampia costellazione della pazzia (da leggere Ammalarsi e curarsi nel medioevo, un saggio di Tommaso Duranti uscito l’anno scorso per Carocci). L’accidia è l’apatia del corpo e dell’anima, l’indolenza che per eccesso di bile nera provocava (in particolare nei monaci) disprezzo per il lavoro, sonnolenza, senso di pesantezza soprattutto dopo mezzogiorno: qualcosa tra la malattia e il peccato. Gli accidiosi e i tristi di Dante sono condannati nell’Inferno a vagare immersi nell’acqua melmosa della palude Stigia o per contrappasso in Purgatorio corrono urlando esempi di sollecitudine. Petrarca, che a suo dire fu vittima dell’ozio opaco e dell’assenza di desiderio, descrive il suo malessere come una sorta di depressione da hikikomori: «Mi assale – scrive – con tale forza che mi tiene avvinto a essa e mi tormenta per giorni e notti; e la mia giornata, allora, non ha più né luce né vita, e diviene del tutto simile a una notte infernale e a una morte crudelissima». Alla sindrome malinconica non si sottrae la vasta categoria dei malati d’amore, decisamente i più cantati dalla lirica cortese o dai poemi cavallereschi. Il «folle amore» per troppa sensualità è l’opposto della fin’ amor spirituale, il sentimento primario esaltato dai poeti provenzali. C’è un esemplare curioso, in questo panorama, ed è l’eroe Tristano, che secondo due anonimi poemetti antico-francesi, mette in scena la propria pazzia per riabbracciare l’amata Isotta. Il cavaliere in esilio, disperato per l’amore perduto, attraversa il mare vagando sotto falso nome, travestito da folle, e rischiando la vita si presenta davanti a re Marco, suo massimo odiatore, e alla regina. Capelli tagliati corti, gonnella stracciata, clava appesa al collo, un pezzo di formaggio tra le mani, al cospetto del re e della regina il folle (finto) narra una storia apparentemente insensata, in cui vengono inseriti però gli episodi salienti dell’amore fatale che lo lega alla regina stessa, Isotta. Finale con riconoscimento e conseguente abbraccio tra i due amanti. In altre varianti del Tristano e Isotta l’eroe impazzisce davvero per gelosia, così come accade a Lancillotto, andato fuori di testa per le ingiuste accuse di Ginevra; e così come toccherà all’Orlando di Ariosto, pazzo di Angelica. Ma ci sono anche testimonianze di giovani donne incendiate d’amore, come la nobile che fu «guarita» niente meno che dalla monaca, teologa e futura santa Ildegarda di Bingen. Rimanendo fuori dalla letteratura, la follia medievale si manifesta nei modi più diversi: come vagabondaggio senza sosta, frenesia e rifiuto del consesso umano, come letargia, licantropia, apoplessia, epilessia, ma anche come possessione demoniaca soggetta agli esorcismi o al contrario come visionarietà divina, fino alle estasi dei mistici e delle mistiche. Sintomi che qualcuno riassumeva nella formula «dire quel che non si deve dire e fare quel che non si deve fare», e che potevano essere affrontati dai medici o dai teologi, a seconda dei casi.
Tanto basta per soffermarsi su una figura femminile eccezionale che rimane poco nota dalle nostre parti: la tragedia di Dinfna, vissuta nel VII secolo, è stata raccontata in una cronaca agiografica che nel Duecento raccolse le molte storie e leggende orali diffuse nelle Fiandre su questa figlia di un re irlandese pagano, la quale venne segretamente battezzata, per volere della devotissima madre, dal prete Gereberno. Presto animata a sua volta da un grande fervore spirituale, la fanciulla dovette fare i conti con il padre, che rimasto vedovo decise di sposare proprio lei, sua figlia Dinfna, ma nulla poté di fronte alla resistenza della ragazza: fatto sta che la ragazza, annichilita dalla proposta incestuosa, fuggì per mare con Gereberno e approdò negli attuali dintorni di Anversa stabilendosi proprio a Geel nei pressi di una chiesa consacrata a San Martino, dove condusse una vita ritirata di preghiera. Tuttavia la povera Dinfna venne raggiunta dal padre, che vedendola pronta al martirio pur di non cedere ai suoi approcci incestuosi finisce per decapitarla. Dalla storia o leggenda di Dinfna vittima della follia demoniaca del padre, nacque un’idolatria della vergine e martire centrata sulle sue facoltà salvifiche e guaritrici delle malattie mentali. Il culto delle sue reliquie avrebbe fatto di Geel, fino a oggi, una città speciale che accoglie, rispetta e cura con dolcezza e benevolenza.