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 2024  maggio 10 Venerdì calendario

Intervista a Asli Erdogan


Nella terra delle parole Asli Erdogan ha costruito la sua resistenza. Scrittrice e intellettuale turca, attivista in difesa delle libertà, fu imprigionata nel 2016 per i suoi editoriali sul giornale filo- curdo Özgür Gündem. Aveva parlato di stupri compiuti dai militari, del genocidio degli armeni, di antisemitismo, di repressione contro i curdi, temi taboo nella Turchia di Erdogan. Accusata di sostegno al terrorismo, fu arrestata e messa sotto processo. Da allora, vive in esilio in Germania. Oggi alle 14,45 sarà ospite dell’Arena Robinson Repubblica. «Erdogan ha cambiato il Paese – dice – ma oggi una parte maggioritaria della società gli resiste». Il suo ultimo lavoro, Tutte le ore e nessuna (edizioni Tamu) è una raccolta di scritti che copre l’arco di 5 anni. Un’opera in cui non c’è catarsi, non c’è fuga, nessuno storytelling. È la ricerca poetico e traumatica dell’essenza.
La letteratura ha il potere di svelare la realtà?
«La scrittura può essere una maschera, la maschera di Narciso, ma è anche l’unico modo di avvicinarsi alla verità. Nella scrittura per i giornali ho sempre sentito la responsabilità di raccontare ciò che accade alle persone. Ho scritto di stupri, di questione curda, della ragazza ebrea che ad Auschwitz ebbe il coraggio di dare uno schiaffo al suo carceriere, ne avevo letto da Primo Levi. Tutte cose di cui in Turchia non si poteva parlare».
E oggi? Quanta libertà di parola c’è in Turchia?
«All’inizio di questo millennio ho sperimentato la Turchia più democratica che abbia mai visto, erano i primi anni dell’ascesa politica di Erdogan, di questo gli va dato credito. Il cessate il fuoco con il Pkk (partito armarto crudo, ndr) portò un periodo di calma. Istanbul era diventata una delle città più liberali del mondo, con una gran vita notturna. Le piazze di Galatasaray erano piene di manifestazioni. Dopo più di un golpe e anni di stato di polizia la società turca stava imparando a parlare, e a divertirsi.
Con le proteste di Gezi park, nel 2013,tutto questo è finito. Erdogan ha cambiato la Turchia, che oggi è un Paese più mediorientale che europeo».
Eppure alle ultime elezioni comunali l’opposizione laica ha vinto in tutte le grande città. Un risveglio?
«La maggioranza dei turchi non vuole più Erdogan e l’Akp, ma la società è divisa. La faglia principale è quella tra il kemalismo, che voleva occidentalizzare la Turchia, e la resistenza conservatrice. È un conflitto che rimarrà anche dopo Erdogan, una crisi di identità radicata nella fondazione stessa della repubblica turca. Ataturk era nato a Salonicco. Siamo europei, mediorientali, musulmani, chi siamo noi turchi? Erdogan ha dato a questa domanda una risposta ideologica».
Una battaglia identitaria che si gioca molto sulla vita delle donne.
Quanto pesano nell’opposizione o nel sostegno a Erdogan?
«Le donne sono molto forti nelmondo curdo perché i curdi hanno una policy per cui in ogni incarico di vertice ci sono nello stesso ruolo una donna e un uomo. Nei repubblicani del Chp si rispecchiano le donne che temono la deriva conservatrice, ma anche tra i kemalisti ci sono poche donne ai vertici. Erdogan è sempre stato attento all’istruzione delle donne, l’ha promossa, sa che ne ha bisogno l’economia. Il suo Akp ama dare visibilità alle donne velate e ben istruite magari nelle università europee, ma ne limita l’ascesa sociale. Il presidente ha incentivato la politica dei tre figli, lavorando per promuovere certi modelli femminili.
Oggi si discutono leggi per rendere più difficile il divorzio. L’aborto, che in Turchia è stato legalizzato dai militari, non è stato abolito ma è diventato quasi impossibile. Ci sono tuttavia anche molte donne che sostengono Erdogan perché ritengono che abbia ridato loro la libertà liberalizzando l’uso del velo.
Vietarlo fu un grande errore dei kemalisti».
Lei è stata una fisica delle particelle, tra le prime donne a lavorare al Cern di Ginevra: un modello oggi per le giovani turche?
«Per molti nel mio Paese avevo assunto uno status quasi leggendario, per la mia storia, per quello che ho fatto e scritto, ma c’è un’altra parte di Turchia che mi ha accusata di essere una traditrice per aver collaborato con un giornale filo-curdo. Sono stata messa all’indice, perseguita, arrestata per quello che scrivevo».
Cos’è per lei l’esilio?
«L’esilio è graduale, ne ho vissuti diversi, alcuni volontari, altri no: a 20 anni fuggii in Brasile perché avevo denunciato i campi illegali di migranti africani in Turchia. Poi sono tornata e sono dovuta fuggire di nuovo perché mi accusavano di sostenere i terroristi. In ogni fuga il mio margine di scelta si è ridotto e ora è zero. Ora l’esilio ha a che fare con i documenti, la burocrazia, il razzismo quotidiano».
Tornerebbe in Turchia?
«Assolutamente si. Non ho mai sviluppato sentimenti di appartenenza nazionalista o identitaria. Ma sono nata a Istanbul e la mia lingua è la mia unica patria».