la Repubblica, 10 maggio 2024
Intervista ad Alessandro Michele
Il primo impegno di Alessandro Michele, a un anno e mezzo dal suo addio a Gucci, non è stato su una passerella – il suodebutto da Valentino sarà a settembre –, ma sulle pagine di un libro,La vita delle forme – Filosofia del reincanto (Harper Collins). Un trattato scritto con il filosofo Emanuele Coccia, in cui Michele discute di moda ed estetica, presente e passato, oggetti e loro significato.
Un progetto insolito, per chi fa il suo mestiere. Ma non per Michele, una delle voci più influenti della moda.
Da cosa nasce l’idea di un libro?
«In principio era una riflessione sugli otto anni alla guida di Gucci, ed era iniziata ben prima che andassi via.
Poi, durante la pandemia il mio compagno (Giovanni Attili, filosofo e professore di urbanistica, ndr )mi ha fatto conoscere il lavoro di Emanuele Coccia. Il libro è frutto di tante conversazioni tra noi; è un trattato psicologico su cosa significhi fare questo mestiere, i suoi pericoli e il valore che assumono gli oggetti».
Lei si definisce un rabdomante degli oggetti. Da cosa deriva questo trasporto?
«Noi siamo le cose che ci circondano.
Quando una persona influenza il suo tempo, alla sua scomparsa inizia la corsa ad accaparrarsi gli oggetti che la circondavano, alla reliquia. Per me non sono un satellite, ma un elemento pregno di vita. Nel creare parto dalle cose perché parto dalla vita. Sono come Pollicino, che segue le briciole lasciate dagli oggetti. O il dottor Frankenstein, che li combina e li assembla anche se sono totalmente diversi».
Scrive che Giorgio Agamben, dopo aver visitato il suo ufficio zeppo di oggetti di ogni epoca, li ha definiti il suo “ponte per l’altrove”.
«Come serve un’ansa per edificare un ponte, così gli oggetti sono le fondamenta su cui costruisco il mio adesso. In particolare quelli del passato: li manipolo, mi ci appoggio, ci costruisco su. E li copio, rendendoli contemporanei».
Come mai nel titolo del libro non compare la parola moda?
«Perché è una parola che creafraintendimenti: si tende a racchiuderla in un contenitore con un indirizzo preciso. E non volevamo che accadesse».
E infatti, a proposito di contenitori e preconcetti, scrive che la moda si oppone allo spirito di non contraddizione contemporaneo, facendo l’esempio del genderless.
«È comodo immaginarsi il mondo diviso in due, ma non è così. Abbiamo imparato a catalogare tutto per dare un senso a quest’universo immenso e continuo, ma ora forse ci siamo resi conto che non è così facile. Che poi, io sono affascinato da nomenclature e suddivisioni come quelle tra maschile e femminile: nella moda ci sono dei simboli considerati maschili o femminili che appena vengono spostati assumono una nuova potenza. Quindi, se da una parte considero certe differenze inutili, dall’altra mi ci immergo, proprio perché la loro riscrittura può essere entusiasmante. Però, se scegli di scardinare certi principi, devi fare i conti con le conseguenze».
E ci riesce?
«Sì: sono cresciuto con l’esempio di mio padre, secondo cui la natura – selvaggia, inarrestabile – insegna di più rispetto ad altri codici».
Cita Bibbia e Talmud. Che rapporto c’è tra moda e sacro?
«Dipende dall’intenzione: i vestiti accompagnano molti riti della nostra vita, dando loro valore. Penso ai preti e alle suore che si spogliano dei loro abiti secolari per prendere i voti».
Perché definisce chi sfila per lei “protagonisti”?
«Per me è sempre stato essenziale che in passerella i miei vestiti fossero carichi dei significati di cui li ho dotati. Il problema è che le agenzie mi proponevano un ideale estetico più da archeologia della moda, che aveva un effetto congelante sui capi.
E così, ho cercato di iniettare loro la vita che mi ero immaginato con una ricerca ossessiva di volti e corpi in linea con la mia narrazione».
E inizia sempre da un racconto?
«Sempre. Anche adesso che sono da Valentino: studio continuamente le immagini del signor Valentino, voglio capire perché creava quello che creava. Il mio lavoro non consiste solo nel fare moda: è un dialogo con il luogo e l’istituzione in cui ti trovi. Mi sento un convitato attivo. Nella mia testa c’è una storia che non è semplicemente la lunghezza di un orlo o la proporzione di una giacca».
Lei parla di moda come esaltazione della singolarità. Però la moda è spesso omologazione.
«Vero. Quando ho assunto la direzione creativa di Gucci ho fatto i conti con una pesantissima omologazione. La moda è un territorio vasto che si offre a tante operazioni, molte di tipo economico, proprio in virtù dell’immenso potere che ha. Di fronte a questa dominante mercificazione, ho cominciato a smontare, confondere e dissimulare per restituirle la vita».
Lei è tornato a lavorare da un mese: come vede la situazione?
«È come se ci fosse stato un arresto emotivo, perché il mondo è in attesa di capire cosa accadrà. Nel frattempo, tutti parlano di un appiattimento creativo. Ma per me la moda è una necessità, un antidoto: più ho paura, più la vorrei celebrare».
Com’è stato esprimersi con la scrittura?
«Penso che le parole siano l’unica religione che ci tiene ancora liberi, per questo spero che ciò che ho scritto risulti vero e autentico».