La Stampa, 10 maggio 2024
Dal libro di Fabri Fibra
Mi è rimasto impresso questo commento sui social di tale @Popperfratop sotto un post su un tema apparentemente controverso: «Se dici qualcosa di scomodo e tutti ti danno ragione, secondo me non hai detto niente di scomodo». Innanzitutto il livello di «scomodità» nei social è bassissimo. I social sono stati pensati per esibire i vestiti, le vacanze e quello che mangi. Per affermare che «ti piace» e basta. Se non fai questo, sei scomodo. Prima di Internet tutti lamentavano la mancanza di libertà di espressione, volevamo poter parlare di qualsiasi cosa, ma purtroppo le case discografiche e le radio ci censuravano. E ora? Puoi accendere le telecamere e fare un discorso mentre sei in bagno, ma se lo fai nessuno ti ascolta, perché il pubblico non lo vuole.Sui social, che sono un’arma di distrazione di massa, il pubblico vuole dimenticare la propria vita e vuole sognare; se tu invece dici una cosa vera, ti dicono che sei triste, sei negativo, sei pesante, devi restare nel tuo, altrimenti ti unfollowo o creo la shitstorm. Spaccare il pubblico che non ti seguirà è la cosa peggiore, peggio della major che non ti produce.Ci sono più stili di censura. C’è una censura che ti va proprio a colpire se tu vai in giro a dire con delle prove come sono andate le stragi del periodo dello Stato parallelo degli Anni Settanta-Ottanta. E poi invece c’è una censura di facciata, per esempio quando un artista vuole attaccare personalmente un altro artista o un brand, alla Kanye West: sai quanti artisti sono di destra e vorrebbero dire le cazzate che ha detto Kanye West, ma non le dicono perché si autocensurano per paura della reazione del pubblico, delle etichette e di chi li fa lavorare? Sei meno censurabile se hai un passato forte e una tua credibilità che ti consente di reggere ciò che dici. Più cerchi il consenso e più ti autocensuri.Molti giornalisti (e anche il pubblico) vorrebbero che gli artisti si esponessero molto di più su temi attuali e scottanti. Ma questo perché vogliono vedere il sangue nell’arena, non per arrivare a qualche risultato concreto, anche perché il parere degli artisti è scollegato da molti temi sociali. A parte che è da vedere se ci credono veramente o lo fanno per agganciarsi a un trending topic o a un hashtag. Molto spesso gli artisti si espongono solo se c’è un tornaconto personale. Secondo me per esporti ed essere credibile e in qualche modo efficace, devi aver vissuto quel problema in prima persona o molto da vicino. O devi farlo comunque senza averne davvero nessun tornaconto. Marlon Brando marciava a fianco di Martin Luther King ed era credibile e importante perché quell’atto impressionava e cambiava davvero le coscienze. In ogni caso, spesso fai l’artista per non finire in galera o perché sei incapace di inserirti nel mondo del lavoro o perché la natura ti ha dato, per fortuna o purtroppo, un talento che ti impedisce di adeguarti a certi modelli sociali. Può essere anche una dannazione. Basquiat era un artista che riusciva a fare questi dipinti assurdi, ma il prezzo che pagava era altissimo: la sua creatività così unica e innovativa gli aveva dato una fama che, a sua volta, generava la pressione per continuare a essere così incredibilmente creativo, senza poter in ogni caso risolvere i problemi che avevano innescato il suo talento e per non pensarci è morto di eroina.L’artista che fa una canzone contro il cambiamento climatico prende gli applausi e gli attivisti che imbrattano temporaneamente i monumenti per dare importanza al messaggio del pericolo climatico vengono attaccati. In fondo nessuno dei due ottiene niente. La forma della protesta che è tollerata da tutti quanti è la canzoncina innocua e inutile che non rompe i coglioni e alla fine tutti ci guadagniamo. Io ti «rovino» l’opera d’arte per accendere il dibattito sul fatto che dovete trasformare le fabbriche che rendono Milano la terza città più inquinata al mondo e invece si risolve con: «E chi paga i danni?». L’artista non vuole pagare i danni, ma vuole soltanto guadagnare, quindi si autocensura o si annulla. —