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 2024  maggio 10 Venerdì calendario

La forma del contenuto


Le scrittrici e gli scrittori di oggi hanno forse poche occasioni per riflettere sulla lingua, la loro «materia prima». Treccani ha inaugurato un ciclo intitolato «Le parole dei romanzi», che offre il pretesto per un dialogo fra autori e studiosi di lingua. Oggi alle 16 in Sala Granata, Walter Siti, premio Strega nel 2013, in libreria con I figli sono finiti (Rizzoli), e Paolo Di Paolo, in semifinale allo Strega quest’anno con Romanzo senza umani (Feltrinelli), si confronteranno con la linguista Valeria Della Valle. Anticipiamo una traccia del loro dialogo
PAOLO DI PAOLO Rispondendo a una domanda sulla quantità di marche, marchi, rimandi specifici all’universo commerciale, pubblicitario, mediatico nei suoi romanzi e in quelli del cosiddetto postmoderno, David Foster Wallace fece notare che nessuno avrebbe chiesto alle sorelle Brontë perché i loro romanzi fossero così pieni di laghi e di alberi. «È una questione di paesaggio», concluse. Ai tempi di Resistere non serve a niente, vincitore dello Strega nel 2013, c’è chi scrisse che un camioncino Iveco parcheggiato in una pagina del libro era il correlativo oggettivo del realismo di Walter Siti. Ma le interessa l’effetto di realtà o qualcos’altro, nel richiamare fittamente «cose» che saranno presto opache? Teme che tra mezzo secolo i suoi libri possano avere bisogno di note a piè pagina – diverse da quelle che lei stesso inserisce nell’ultimo romanzo, I figli sono finiti ?
WALTER SITI Pochissimi, credo, hanno notizie precise dei negozi e dei pub dublinesi di cui si parla nell’Ulisse, e quasi nessuno conosce i militari russi di cui chiacchierano le signore all’inizio di Guerra e pace, ma non mi pare che questo impedisca il piacere della lettura. Anzi, l’effetto di realtà ne è accresciuto, perché nella realtà molte cose che sfioriamo ci restano ignote. L’idea classicista che per non perdere universalità si debbano eliminare i dettagli effimeri è per l’appunto l’idea di una scuola. Ogni tanto mi concedo il lusso di leggere la Commedia senza note, i riferimenti politici non me li ricordo tutti ma godo uguale; quando poi leggo un commento che mi spiega quanto sottile sia stato Dante nell’impegnarsi provo un sovrappiù di ammirazione. Per questo cerco di inventare il meno possibile e di documentarmi parecchio.
DI PAOLO Impasti linguistici. Alto, basso, medio. Lei può essere lirico senza melensaggine, giornalistico quasi come un cronista, saggistico/enciclopedico alla bisogna. E ha un notevole orecchio per i dialoghi, il cosiddetto parlato. Che, suppongo, non «sbobina» ma reinventa. È consapevole rispetto alle scelte linguistiche quanto lo sarebbe da lettore-critico? O ha trovato la sua lingua (devo dire stile?) senza sforzo, istintivamente?
SITI Lo stile (ammesso che io sia riuscito ad averne uno) non te lo regala Babbo Natale; nel primo romanzo soffrivo ancora di esibizionismo, poi ho lavorato molto sul togliere. Quel poco di esperienza che mi ero fatto come critico stilistico mi ha insegnato che lo stile vero è in parte ignoto al suo autore, quindi anch’io mi sono abituato a lasciar andare ogni tanto la frizione, a far scorrere il ritmo senza volere per forza esserne padrone; c’è sempre tempo per mettergli dopo un po’ di briglie. I dialoghi in piccola parte li sbobino, ma solo reinventandoli si ottiene un effetto di naturalezza.
DI PAOLO Che rapporto sente di avere con la lingua italiana? Senza la retorica sulla lingua più bella del mondo, che immagino non la sfiori, che lingua pensa che sia? Maneggevole come lo sarebbero altre? O ha una specificità che intuisce, magari nel legame con la tradizione, con la letteratura che l’ha formata e che ha a lungo insegnato? Come vive le traduzioni dei suoi libri? La Gruber o la D’Eusanio, il premio Strega, Casa Pound, le persone reali (mi metto lusingato nel mucchio) che evoca con nome e cognome… La preoccupa l’intraducibilità?
SITI L’italiano è una lingua interessante: ha uno scheletro austero, già letterario alla nascita, ma proprio questa sua solidità un po’ inteccherita invoglia ad aggredirla con mille forestierismi e innovazioni maleducate – che sono state fin dall’inizio le altre lingue europee (francese provenzale e spagnolo come ora l’inglese) ma anche e soprattutto i mille dialetti diversi che solo recentemente sono stati assimilati da un’unica lingua. Non ho mai visto alternative al plurilinguismo. Non mi interessa la traducibilità dei miei libri, se per renderli più traducibili devo rinunciare alla varietà linguistica. Alla povera Martine Segonds-Bauer, quando lessi il suo Leçons de nu, dissi «lo hai nobilitato, ma è tutto in francese…».
DI PAOLO Lavorare sulla lingua come ossessivamente hanno fatto autori gloriosi, autoimmolatisi ai dizionari, alla ricerca dell’esattezza, dell’effetto formale ha ancora senso? Non dico essere Gadda: ma più banalmente limare, cercare un’efficacia espressiva, evitare il generico e lo sciatto, sono operazioni masturbatorie? C’è ancora un lettore che potrebbe dire di godere della lingua in cui è scritta una storia? Ha un senso perderci tempo, se nessuno dà segno di apprezzare lo sforzo?
SITI Immolarsi ai dizionari mi pare troppo: per «forma» io non intendo solo quella dell’espressione ma anche la «forma del contenuto», cioè come si modella e si mette in prospettiva la propria visione del mondo. Diceva Thomas Mann: «Alla folla piace che le si parli con frasi sciatte». Curare la forma è anche un’opzione di disciplina, un rifiuto fermo della retorica sentimentaloide; e il lettore, secondo me, anche se non se ne accorge a livello cosciente, lo avverte in modo subliminale. Si racconta che Pisanello, a chi gli faceva notare che i gioielli al collo della sua principessa salvata dal drago stavano troppo in alto perché i fedeli da sotto potessero apprezzarli, abbia risposto «ma Dio li vede». E in ogni caso la masturbazione è un’attività da non sottovalutare.
DI PAOLO Lei è passato per il pioniere o l’araldo dell’autofiction in Italia, forse più per quel «Mi chiamo Walter Siti, come tutti» che per l’effettiva o programmatica frequentazione del genere. L’ultimo libro è un romanzo di invenzione. Oggi si ha più l’impressione che vinca, su tutti i piani, l’autobiografismo esplicito, il contenutismo o il ricatto del tema, e comunque la matrice extraletteraria: anche solo nella palpabile reazione emotiva del pubblico dei festival. Il «letterario», come lo si chiamava senza dover specificare, è ancora praticabile? Perché dice che la letteratura è un mito in scadenza?
SITI A dir la verità non sono io autore che lo affermo nel libro, è il ventenne Astore che ci tiene a marcare le distanze dal vecchio dirimpettaio. Però è vero che per la «letteratura» in senso forte come la intendevamo una volta corrono cattivi tempi: la comunicazione ha prevalso sulla parola che affiora dopo uno scavo e non ambisce a una immediata utilità. La letteratura non è fotogenica né telegenica, non puoi nemmeno ascoltarla per radio, la devi proprio leggere – e molti si stufano. Ha da passà ’a nuttata.