Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  maggio 10 Venerdì calendario

Intervista a Rushdie

«Ho sentito del contenzioso tra la Signora Meloni e Roberto Saviano. A mio rischio personale dico che i politici, considerato il loro grande potere, dovrebbero sviluppare maggiori capacità di sopportazione. È normale che i cittadini parlino di loro in maniera anche molto forte e diretta. Portarli in tribunale è una risposta infantile. La mia risposta alla Signora Meloni dunque sarebbe: cresci!». Così lo scrittore indiano Salman Rushdie, 76 anni, risponde a una domanda de La Stampa al Salone del libro di Torino sul suo incontro di oggi con il collega napoletano e sulla pressione del governo italiano su intellettuali come l’autore di Gomorra o lo storico Luciano Canfora, nonché sulla Rai. L’occasione è la conferenza stampa sul nuovo libro Knife (Mondadori), cioè “coltello”, e che per lo scrittore che ha perso un occhio in un’attentato vicino New York nel 2022 è una specie di arma: «Quando ci si trova in una rissa si dovrebbe avere in mano qualcosa per reagire e questo libro è la mia penna, il mio coltello, la mia vendetta e anche il superamento di quella situazione».
In questi giorni torinesi Rushdie fa una vita blindata e programma di «rimanere in Italia per un po’ e di visitare altri Paesi europei. Meglio non stare in America adesso. Ho pubblicato due libri di recente e ora mi merito una pausa», scherza mettendo in luce l’ironia di cui è ancora capace. Giacca blu principe di Galles, camicia morbida giallina, lo scrittore viaggia con la moglie poetessa Rachel Eliza Griffiths, venere nera di trent’anni più giovane con cui ieri sera ha cenato al Cambio dopo una visita al Museo Egizio. «Tornare in Italia è come una vittoria per noi. Siamo stati qui per un mese prima dell’attentato. Uno dei migliori periodi della nostra vita. Siamo stati in Umbria, a Capri, in Sardegna, non tanto a Roma e a Milano. Fu il primo viaggio dopo la pandemia e ora tornare è come chiudere un cerchio», risponde a una domanda dei giornalisti. Di seguito le altre.
Cosa ha capito delle motivazioni dell’attentatore, il terrorista Hadi Matar, che ha affermato di aver agito perché lei avrebbe insultato l’Islam?
«Ho scritto il libro anche per cercare di capire. Lui aveva letto due pagine del mio lavoro e visto qualche video online. Era incensurato, non sospetto, un ragazzo del New Jersey come tanti, eppure è passato da zero a cento in poco tempo».
La religione viene usata come un’arma nel mondo?
«Sì, ma non è solo l’islamismo radicale a farlo, anche se col suo potere danneggia milioni di persone. Pure la Chiesa evangelica contribuisce all’estremizzazione della destra americana, per esempio sul tema dell’aborto. Tra l’altro trovo assurdo che dei cristiani possano sentirsi rappresentati da Trump, che è uno dei meno cristiani al mondo. Pure in India l’induismo estremista mina le radici laiche dello stato. Molte religioni si armano ed è un fenomeno assai negativo».
Lei scrive che viviamo nel pieno della guerra mondiale delle storie, chi sta vincendo questo conflitto?
«Non so dirlo perché è ancora in corsa. Tutto sta accadendo ora. Basta vedere come si raccontano le attuali vicende umane. I russi per esempio danno dei nazisti agli ucraini e molti russi ci credono. Gli ucraini dicono esattamente l’opposto e così la guerra continua. In Medio Oriente combattono appassionatamente da anni per lo stesso pezzo di terra. Occorre riconciliarsi in una narrazione comune altrimenti la guerra non ha mai fine».
Ci possono essere dei casi in cui la parola non basta?
«Nella mia situazione ho solo dovuto trovare la forza di tornare al lavoro che facevo. Per me è stato come far scattare un interruttore. Sono tornato alla scrivania e ho ripreso a scrivere, dopotutto lo faccio da più di cinquant’anni».
Sta ricominciando a vivere normalmente?
«Chi ha tentato di uccidermi ha provato a togliermi la forza e scrivere per me è un mezzo di riprendere il controllo della mia narrativa e della vita. Non nomino il mio attentatore perché ha già avuto i suoi dieci minuti di celebrità. Ora lui è un mio personaggio e ne faccio quello che voglio, perché dipende da me».
Nel 1989 lei subì una fatwa da Khomeyni per la sua opera I versi satanici e nel libro Joseph Anton ha scritto che ne valeva la pena. Dopo l’attentato ripeterebbe quella sua considerazione?
«Diciamo che avrei preferito non essere pugnalato quindici volte da un attentatore, ma ovviamente si è trattato di un attacco per tacitarmi e paradossalmente ora la mia voce è più richiesta. Se ne è valsa ancora la pena? Tornerei felicemente al mondo che vivevo prima di questo attentato».
Ai tempi della fatwa non tutti gli intellettuali si schierarono con lei, a differenza di ora, cosa ne pensa?
«Uno di quelli che stette dall’altra parte fu Papa Giovanni Paolo II. All’epoca fu doloroso subire attacchi non islamici. Chi non prese le mie parti mi scioccò, soprattutto se si trattava di amici e colleghi. Ora per fortuna il supporto è stato unanime. Sono uno che dimentica in fretta, anche se ricordo tutti i nomi di chi prese le distanze».
Oggi di cosa ha paura?
«Delle recensioni negative, ma fortunatamente su questo libro ce ne sono state poche».
Cosa la aiuta ad andare avanti?
«Non c’è altro che possa fare, non sono un ballerino o un giocatore di calcio. Scrivo libri e lo faccio perché non ho scelta. È quello che sono. Scrivo per me e per i lettori. Gli scrittori possono essere persone molto ostinate».
Come fa a mantenere la fiducia nel prossimo?
«Conosco tante belle persone e quando rifletto sulla razza umana non penso al peggio, ma al meglio».
Si è chiesto perché sia capitato a lei e non a un altro?
«Non lo so, dico solo che se i miei libri non piacciono basta leggere quelli degli altri. Per questo le librerie sono piene di volumi. Naturalmente preferirei fossero colme solo dei miei libri, ma la scrittura si basa sulla libertà».
Chi avrebbe il coraggio di scrivere I versi satanici oggi nell’epoca della cancel culture e del politicamente corretto?
«Non lo so, ma francamente non mi dispiace non avere vent’anni e non dover cominciare ora il mio primo libro, perché vedo un nervosismo nei giovani autori che si interrogano su cosa convenga fare. Sono troppo vecchio per sentire quel tipo di pressione». —