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 2024  maggio 10 Venerdì calendario

Da Suez alle colonie, le crepe nel patto di ferro tra Usa e Stato ebraico

«Quello che è troppo è troppo», esclama Joe Biden decidendo di minacciare il taglio degli aiuti militari a Israele in rotta di collisione con il governo Netanyahu. Gli americani nell’immediato esigono il blocco dell’attacco su Rafah, ma la crisi è molto più profonda: riguarda il futuro dei territori occupati sin dal tempo della guerra del 1967 e soprattutto lo scontro frontale sulla questione della nascita di uno Stato palestinese.
Sia a Washington che a Gerusalemme prevale l’opinione che si tratti di tensioni contingenti, destinate a non scalfire nel lungo periodo la «special relationship» che unisce i due Paesi sin dagli anni della Guerra fredda. Israele resta il Paese che ha ricevuto più aiuti militari americani di ogni altro nell’ultimo mezzo secolo. E tuttavia i numerosi critici israeliani del governo accusano Netanyahu di mettere a rischio il rapporto con un alleato vitale, il cui sostegno è certamente forte, ma non sempre scontato. Tra i due Paesi in effetti non sempre sono state rose e fiori. Anzi, non sono mancati ostilità e sospetti, compresa l’idea mutuata dal governo britannico prima del 1948 per cui appoggiare il movimento sionista comportava la rottura col mondo arabo con gravi danni per l’economia e l’import energetico.
Oggi sembra lontano anni luce: ma ci fu un periodo in cui l’amministrazione americana guardava con forti perplessità alla possibilità della nascita di Israele. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale il presidente Truman si scontrò con il suo segretario di Stato, George Marshall, il quale sosteneva la necessità di privilegiare l’alleanza col mondo islamico in chiave anti-sovietica. Truman fu fortemente influenzato dal dramma dell’Olocausto e la conseguente necessità di creare uno Stato rifugio per gli ebrei sopravvissuti: gli Stati Uniti furono il primo Paese a riconoscere de facto l’esistenza di Israele appena dopo la sua dichiarazione d’indipendenza il 14 maggio 1948. Eppure, il primo riconoscimento de jure arrivò da Mosca. E c’è di più. Gli americani inviarono aiuti umanitari, ma le armi per la guerra d’indipendenza giunsero dal fronte comunista. Sino ai primi anni Cinquanta non fu ben chiaro se Israele sarebbe stato con il mondo occidentale o una pedina sovietica. Stalin s’illuse di avere un alleato; guardava con simpatia agli ebrei russi emigrati che adesso erano il fior fiore della classe dirigente askenazita; i kibbutz potevano ricordare i kolkhoz; l’Histadrut, la centrale sindacale laburista, era legata a filo doppio al socialismo sovietico. Come nota lo storico israeliano Uri Bialer: «Fu soltanto con la guerra di Corea che David Ben Gurion si schierò apertamente con gli americani».
Nei primi anni del nuovo Stato gli aiuti militari giunsero grazie alle riparazioni tedesche garantite dal Cancelliere Adenauer e poi dalla Francia, che fu anche l’iniziatrice della bomba atomica israeliana. Dagli Stati Uniti giunse invece il deciso «alt» alla guerra contro l’Egitto di Nasser lanciata dallo Stato ebraico nel 1956 assieme a Francia e Inghilterra. In quel caso l’amministrazione Eisenhower (1953-1961) fu granitica nel pretendere il ritiro israeliano dal Sinai, inclusa la striscia di Gaza, contro ogni revanscismo coloniale e in nome della logica bipolare imposta dalla Guerra fredda. Fu poi John Kennedy a porre fine all’embargo dell’invio di armi a Israele. Però Kennedy avrebbe voluto smantellare il reattore nucleare di Dimona nel timore che potesse innestare la corsa all’atomica araba.
Dopo la guerra del 1967, gli Stati Uniti cementano l’alleanza: sono contrari alle colonie nei territori occupati, eppure inviano armi come non mai, sino a letteralmente «salvare» Israele dall’attacco arabo nell’ottobre 1973. Un ultimo momento di crisi acuta tornò nel periodo degli accordi di Oslo tra il 1992 e il 1994, quando Washington esigeva con forza il congelamento delle colonie. La pressione americana non sortì effetti rilevanti e da allora il processo di pace è di fatto bloccato.