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 2024  maggio 09 Giovedì calendario

Sulla Fedra di Euripide

Per tre volte, nel prologo della Fedra di Euripide, magnificamente tradotta da Nicola Crocetti, gli spettatori che l’11 maggio assisteranno alla sua rappresentazione inaugurale sulle gradinate del Teatro Greco di Siracusa, ascolteranno Afrodite pronunciare la parola «luce».
La dea, «potente e ben nota in cielo e tra i mortali che vedono la luce dai confini del Ponto a quelli di Atlante», non ammette di essere trattata con arroganza, ed è offesa con Ippolito, il figlio nato dall’Amazzone di Tèseo, che onora la sua rivale Artemide, «sdegna l’amore e non sfiora le nozze».
Farà luce sulla malattia di Fedra, che del figliastro Ippolito è innamorata perdutamente fin dal primo momento in cui lo ha visto, e in silenzio, «infelice, soffre». Farà morire sia Fedra che il figliastro, perché «non deve finire così questo amore». Poi, mentre il puro Ippolito, con i servi e i cani, torna esultante dalla caccia – ignaro che per lui «si sono spalancate le porte di Ade, e questa è l’ultima luce che vede» – scompare dalla scena, lasciando, nel cuore di chi ha appreso questo verdetto crudele, uno smarrimento profondo e una nostalgia infinita.
Perché, subito dopo, insieme a lei, è la luce a scomparire dalla tragedia dell’amore inviolato e vilipeso, impossibile come ogni amore assoluto, che la dea dell’amore carnale non tollera. E tutto ora è cupo, nel cuore e sulla scena, tutto è coperto, segreto, serrato nell’oscurità colpevole della sventurata peccatrice senza peccato come, con estrema intransigenza, nella sua Phèdre del 1667, contemporanea della severità giansenista, decreta il moralista Jean Racine.
Destino
La protagonista è ghermita da un dolore che annulla tutte
le responsabilità umane
Procede, invece, da molto lontano, da una distanza che annulla le responsabilità umane e sprofonda nella insondabilità dei primordi, questa colpa, il male, o come traduce Nicola Crocetti: la «malattia» che ghermisce la Fedra euripidea, generata a Creta da una donna, Pasifae figlia del Sole, e da un toro. Sta chiusa in casa. Giace a letto malata, piange; non tocca cibo; «un velo leggero fa ombra al suo capo biondo», ma il segreto che la tortura lo tiene per sé. Qual è questo segreto? Invano il coro delle donne di Trezene si interroga. Tèseo, il suo sposo ama un’altra donna? Un marinaio le ha portato una ferale notizia? Lei tace. La sua nutrice cerca di scuoterla, la rimprovera, le dice che non c’è nulla di meglio della vita, «e se anche ci fosse qualcosa di meglio della vita, una nube di tenebra lo avvolge e lo nasconde». Lei, esausta, chiede alle ancelle che le tolgano il velo, che le sciolgano i capelli; vorrebbe «bere acqua pura da una fonte fresca, riposare distesa all’ombra dei pioppi, su un prato folto d’erba». Si lamenta: «Che cosa ho fatto, povera me? Dove sono finita vagando fuori di senno. Sono impazzita: cado nella rovina decretata da un dio. Balia, coprimi di nuovo il capo: mi vergogno di quello che ho detto. Coprimi: mi lacrimano gli occhi e il mio sguardo si muta in vergogna».
Finalmente, in uno dei dialoghi più serrati e commoventi della tragedia greca, si arrende. «Che cos’è quella cosa che chiamiamo amore?» chiede alla nutrice. «La cosa più dolce, bambina, e più dolorosa insieme» la nutrice risponde. «Nel mio caso è la più dolorosa.» / «Che dici? Sei innamorata, figlia? E di chi?»/ «Quello che è nato dall’Amazzone...»/ «Vuoi dire Ippolito?» / «Tu l’hai detto, non io».
Ora, la tensione drammatica ha raggiunto il suo culmine. Qualcosa di terribile sta per accadere, dopo la confessione dell’amore non consumato, e per questo ancora più dolce e doloroso insieme, ancora più tempestoso. Invano la nutrice cerca di convincere Fedra a non sentirsi insozzata da un desiderio che reputa ingiusto. Invano le dice: «Sei innamorata – e cosa c’è da sorprendersi? Molti mortali lo sono! E per amore tu vorresti rinunciare alla vita? Quando colpisce come onda impetuosa, Afrodite non si può arginare. Vive nel cielo, Afrodite, è presente nell’onda del mare, ogni cosa nasce da lei: è lei che semina e dona amore, da cui siamo nati tutti noi che viviamo sulla terra. Bambina cara, deponi questa follia, deponi questo tuo orgoglio. Abbi il coraggio di amare: un dio ha deciso così». Fedra non cede. Il suo unico timore è che la nutrice riveli la sua passione colpevole a Ippolito. Quando questo, invece, succede, si impicca.
È il destino. Tutto è stato deciso dagli dèi. E sempre continuerà a essere deciso da loro. Ma lei vuole esserne artefice e con una lettera che Tèseo, appena tornato, le trova nel grembo, accusa Ippolito: il vergine innocente che odia le donne, non ha affatto tradito la fiducia di suo padre, dovrà andarsene in esilio per un peccato che non ha commesso, sarà travolto sulla spiaggia dai suoi cavalli spaventati dall’apparizione improvvisa di un toro mostruoso. Poi il toro si inabissa nelle onde, scompare in fondo al mare, come la luce è scomparsa all’inizio del dramma. E a nulla servirà che Artemide riveli la verità e ristabilisca il giusto. Una desolazione livida avvolge il commiato. Ha vinto Afrodite.