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 2024  maggio 09 Giovedì calendario

Il sogno di Schuman Europa da ritrovare


Come possiamo parlare di pace quando la guerra è alle nostre porte? Quando bimbi e vecchi vagano sgomenti tra le macerie sbriciolate dai missili, quando le donne con i neonati in braccio cercano riparo tra le macerie fumanti delle case, quando i parchi, dove si andava a passeggiare e a giocare, sono diventati cimiteri di guerra in cui si prega e si asciugano le lacrime? Come possiamo sperare quando interi popoli vivono un inferno umanitario: le strutture sanitare distrutte, il cibo, l’acqua, le medicine mancano, i bimbi uccisi giacciono sulle strade bombardate e ai giovani è tolto il futuro? Per quasi ottant’anni noi europei abbiamo creduto che la guerra non riguardasse più il nostro continente, che fosse stata archiviata per sempre, ma ora che la guerra “a segmenti”, come la chiama papa Francesco, ci è vicina ci rendiamo conto dell’assurdità di essa. Siamo sconfitti o possiamo ancora sperare che le armi si trasformino in falci? Il 9 maggio di quest’anno è diverso. Settantaquattro fa, nel 1950, Robert Schuman lanciò il suo appello: «La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionati ai pericoli che la minacciano…». Tante generazioni hanno creduto nella parola “pace” e hanno confidato nell’uomo che inventò un nuovo modo di pronunciarla. Poiché la guerra mondiale, terminata cinque anni prima, si era nutrita di carbone e di acciaio bisognava incominciare da lì, frenando il desiderio di vendetta, l’escalation, il ritorno del peggio, anzi conciliandosi con l’ex nemico e alleandosi con lui per costruire un popolo con un comune destino: la pace duratura e con essa la solidarietà e la prosperità tra i popoli dei sei Paesi che avevano aderito al suo invito.
Il sogno di molte generazioni si era avverato. I Paesi feriti si abbracciarono per non continuare a mordersi. Si guardava con serenità al futuro, mentre tre uomini di frontiera, Konrad Adenauer, Robert Schuman e Alcide de Gasperi, tre cattolici democratici che interpretavano la politica come servizio al bene comune, tre uomini carismatici che avevano il tedesco come lingua comune e il suo rigore come pratica mentale, percorsero il continente cercando di convincere i governi ad aderire alla prima Comunità Europea.
I giovani dei sei Paesi si diedero appuntamento a Strasburgo sul ponte sul Reno e abbatterono i fili spinati, troncarono con le cesoie i cavalli di Frisia che segnavano il confine tra Francia e Repubblica Federale Tedesca e, sventolando bandiere e cantando la loro gioia, si abbracciarono. Quei giovani non avevano subito l’infatuazione delle dittature che avevano portato alla guerra, erano appassionati per la nuova Europa unita, pacifica e solidale, mentre i loro padri erano al lavoro per ricostruire strade, ferrovie, ponti. Quei giovani avevano imparato dai padri che occorreva assicurare all’Europa un mondo senza trincee, senza violenze, senza calunnie. Erano contro ogni violenza, ogni dittatura, ogni mortificazione di verità, ogni compromesso con l’ingiustizia «L’Europa non è stata fatta e abbiamo avuto la guerra», aveva detto Schuman nella sua dichiarazione. Quei giovani, divenuti anziani, oggi si sentono sconfitti. Si sentono sconfitti dalla politica che non è capace di progettare il futuro “con atti creativi”. Si sentono traditi dai partiti che perseguono i propri interessi guardando non al futuro, ma alle vicine elezioni. Si sentono traditi dagli imbonitori di turno che tendono a manipolare la memoria collettiva che infonde soltanto una sensazione di beata onnipotenza. Molti hanno paura perché hanno perso la fiducia nella coscienza europea capace di mitigare gli eccessi, perché si sono spenti gli ideali che soli danno forma a un’unione, perché l’ideale viene prima della realtà economica e perché non si sono innamorati del grande mercato.
Ma lo scoraggiamento e il pessimismo non hanno abbattuto il loro cuore risoluto. Oggi guardano al passato per rifondare un’Europa che sia più demo-cratica, fondata sulle decisioni di un libero parlamento e non sui veti di un consiglio che sembra una riunione di affari: vogliono una riforma globale che faccia emergere una nuova forma di governo europeo in modo tale che i singoli stati abbiano la capacità di agire più efficacemente.
Vogliono che l’economia non schiacci la giustizia sociale, che la finanza metta in atto investimenti massicci per sostenere la transizione ecologica e digitale, che la crisi migratoria cessi di essere un motivo di propaganda e di divisione e che la natura del progetto di compromesso raggiunto a Strasburgo sull’accordo di Dublino venga cambiato totalmente rimuovendo l’art. 2, includendo un piano globale di cooperazione di tutti i Paesi con l’Africa, che si permetta la creazione di corridori umani-tari, che le ong vengano premiate e non punite perché esse non sono contro l’uomo.
Ricordare la dichiarazione del 9 maggio significa che l’Europa è in continuo divenire e che essa sarà unita creando “passo dopo passo” realizzazioni concrete. Schuman ci ha insegnato che bisogna puntare con fermezza e costanza su iniziative nuove e addirittura rivoluzionarie, a cui ci conduce un giudizio ponderato e non lo scetticismo ironico, a servire la persona contro ogni fanatismo presuntuoso, a possedere il gusto della pace contro ogni neutralità incosciente. Ecco perché ricordiamo il 9 maggio 1950.