La Stampa, 9 maggio 2024
Rachel Eliza Griffiths racconta l’attentato al marito Salman Rushdie
Mi sono svegliata sola e presto, la mattina di venerdì 12 agosto 2022. Quando mio marito, lo scrittore indiano Salman Rushdie, è stato quasi ucciso a coltellate sul palco di Chautauqua, New York, stavo bevendo il caffè. Quella è stata l’ultima mattina, semplice e ordinaria, prima che la mia vita venisse sconvolta dai 27 secondi che l’aggressore di Salman ha impiegato per pugnalarlo una decina di volte, conficcargli il coltello nell’occhio destro fino a sfiorargli il nervo ottico.
In quel momento non sapevo niente di tutto questo, ero diventata da poco sua moglie. La nostra era una storia d’amore, non la storia di un tentato omicidio. Ci eravamo sposati il 24 settembre 2021, un venerdì uguale a quel giorno che avrebbe mutilato il nostro futuro.
Ero a casa, leggevo. La luce estiva inondava il nostro salotto. Hero, il mio cane, mi stava era accoccolato di fianco, sul pavimento. Stavo bevendo una seconda tazza di caffè quando il telefono ha squillato. A chiamarmi era una cara amica e così, quando ho risposto e le ho augurato buongiorno, ho sorriso.
«Dove sei?», ha detto, con una voce che non le avevo mai sentito prima.
«A casa, sto prendendo il caffè».
Per un istante ho pensato che fosse dalle mie parti, forse addirittura fuori dalla porta. La sua voce però era spezzata. Era strana. È scoppiata in singhiozzi. Le ho sentito pronunciare il nome di mio marito. «Eliza, arrivo subito», ha detto con la voce soffocata, ripetendo: «Salman, si tratta di Salman. È ferito».
«Cosa stai dicendo?», le ho chiesto. Ma lei aveva già chiuso la comunicazione. Non c’era un altro Salman cui poteva riferirsi. Ho fissato il mio cane, il mio libro e la mia tazza di caffè. Sembravano diversi.
Mi sono resa conto che la mia amica sarebbe arrivata nel giro di poco, e sono corsa su a vestirmi. Il mio corpo si muoveva, ma la mia mente aveva perso lucidità. Dove è mio marito? Che ferite ha? Sta male? Ha avuto un incidente d’auto? C’è stata una sparatoria?
Quando sono arrivata in cima alle scale, il cellulare era pieno di notifiche e messaggi. Ho iniziato a girare in tondo, frastornata. Ho indossato un paio di jeans e una maglietta, entrambi neri. Ho guardato il letto sfatto dove avevo dormito dalla parte di Salman perché mi era mancato. Mentre mi precipitavo giù per aprire il portone sono scivolata e sono caduta dalle scale.
A quel punto ho iniziato a urlare. Non perché mi fossi fatta male, non perché avessi paura. Urlavo perché non avevo il controllo.
Mentre cercavo di alzarmi, ho intravisto sullo schermo del cellulare una notifica del New York Times con il nome di Salman che lampeggiava. La televisione in salotto era accesa e anche lì è apparso il suo nome, all’interno di un titolo scorrevole su sfondo nero. Le parole “accoltellamento” e “aggressione” mi sono apparse sfocate. Non c’era nessuna altra notizia.
Una volta arrivata, la mia amica mi ha aiutato a preparare la valigia, mentre io cercavo di rispondere allo scroscio di telefonate. Gli amici, piangenti e agitati, mi chiedevano se Salman fosse vivo e se avessi bisogno di aiuto.
«Non lo so», è tutto quello che riuscivo a rispondere, perché non lo sapevo. Non sapevo di quale aiuto potessi aver bisogno. Non sapevo se Salman fosse vivo. Non sapevo dove fosse. Per favore, non portatemelo via. Per favore, non permettete che Salman muoia. In un momento di incredulità gli ho telefonato, consapevole che non poteva rispondermi perché era ferito, o peggio.
Non potevo lasciare che la mia mente imboccasse quel tunnel, perché pensarci era inutile e rischioso. Dovevo andare da Salman, ovunque si trovasse. Avevo bisogno di stare con lui. Pensare a qualsiasi altra cosa avrebbe significato perdermi.
Con l’aiuto dei nostri agenti letterari, sono riuscita a noleggiare un aereo privato che mi avrebbe portato, con mia sorella e suo marito, a UPMC Hamot, una struttura ospedaliera di Erie, in Pennsylvania. In auto avrei impiegato sette ore, in aereo poco più di un’ora.
Con affanno ho comunicato al telefono i dati della mia carta di credito e completato le procedure necessarie. Quando ho approvato l’esborso di una cifra astronomica, ho cercato di non pensare a come e quando Salman e io saremmo tornati a casa.
Da cinque anni, lui e io stavamo costruendo in privato una dimora l’uno per l’altra. Si trattava di un luogo vivo e reale, dentro ciascuno di noi, pieno delle nostre fantasie, delle nostre risate, dei nostri racconti e della nostra libertà. Io sono la sua casa e lui è la mia, ho pensato. Non sono pronta a vivere senza di lui.
Quando è arrivata una macchina per condurci a un piccolo campo d’aviazione a Westchester County, sul marciapiedi di fronte era già assiepato un gruppetto di persone con le telecamere. Mi si è avvicinata una donna con un microfono in mano. «Che rapporti ha con lo scrittore indiano Salman Rushdie? Può confermare che Sir Salman Rushdie è ufficialmente morto?».
Non le ho risposto, l’ho soltanto avvertita di non toccarmi. Salendo in auto, il mio corpo ha iniziato a tremare in modo incontrollato. Mi sono coperta il viso. Non sono riuscita a guardare il nostro portone. Il mio cane ha abbaiato angosciosamente. La nostra domestica era lì, accanto alla mia amica. Una perfida luce del sole faceva brillare le lacrime sui loro visi.
Durante il volo ho fissato il cielo azzurro, magnifico. Ero terrorizzata. Ero consapevole che la vita felice che avevo vissuto fino al giorno prima era finita. Ma mi sono sforzata di non autocommiserarmi. Credo che le domande perché io? e perché non io? vengano da pensieri inutili.
Oltretutto, prima di atterrare avevo bisogno di darmi regole a cui attenermi, così da potermi concentrare su Salman. Non sapevo come prepararmi a cosa mi sarei trovata di fronte. Non avevo paura degli ospedali. Da bambina ho assistito spesso ai ricoveri in ospedale di mia madre, dovuti a una sua malattia cronica. Sapevo come funzionano gli ospedali. Ero capace di reggere la vista del sangue e degli aghi, potevo sostenere il suono delle sofferenze invisibili. All’epoca, da bambina, mi sforzavo di cercare sempre la luce del sole in quei corridoi sterili dall’odore acre. Avevo imparato a non dimenticare mai la dignità della vita umana. Da adulta, mi sarebbero servite tutte le mie forze per orientarmi di nuovo in quell’ambiente ospedaliero, perché mio marito era lì e aveva bisogno di me.
Undici mesi prima, circondata da parenti e amici, avevo riso accogliendo Salman, nel mio vestito di nozze d’oro. Nonostante la nostra differenza d’età – lui ha 76 anni, io ne ho 45 – ci siamo considerati alla pari fin dall’inizio e abbiamo scelto di amarci con limpidezza, passione e coraggio. Il giorno del nostro matrimonio, Salman mi ha promesso di amarmi, quel giorno e per sempre. Nella buona e nella cattiva sorte – sono le parole che abbiamo pronunciato. Non era trascorso nemmeno un anno ed eccoci lì, travolti dalla cattiva sorte.
Nella mia testa ho iniziato a elencare le priorità. Di che cosa avevo bisogno per aiutare Salman e me stessa? Che cosa avrebbe guidato le mie decisioni rispetto alle cure mediche? Come mi sarei presa cura di me stessa alla luce di quella imprevista circostanza di risonanza globale?
L’opinione pubblica non sapeva ancora che poco tempo prima Salman mi aveva sposato. Sono la sua quinta moglie. Fin dall’inizio ho voluto proteggere la mia privacy. Sono un’artista, non qualcosa da esibire. Scioccamente avevo creduto che le vite precedenti di Salman – e gli anni in clandestinità che lui chiama “i miei brutti vecchi tempi” – appartenessero a un passato che aveva poco a che vedere con l’uomo che ora è mio marito. Tuttavia, ero consapevole che il mio Salman e Sir Salman Rushdie erano lo stesso uomo. Vivevano entrambi in casa nostra.
A occhi chiusi, ho visualizzato il volto di Salman e la luce speciale che emanano i suoi occhi quando mi guarda. Ho immaginato il sorriso di mia madre, ricordando come mi ha insegnato ad amare e a combattere. L’amore è un’arma potente, reale quanto il coltello che ha accecato mio marito da un occhio. Nasce dalla vulnerabilità, non dalla vigliaccheria.
Quando l’aereo ha iniziato la sua discesa, mi sono asciugata le lacrime. La donna che ero stata fino al giorno prima mi ha detto addio, augurandomi buona fortuna. Sotto di noi, sulla pista, vedevo già un ingente dispiegamento di macchine della polizia con i lampeggianti accesi. C’erano uomini armati, allineati e in uniforme, con gli occhiali da pilota e la testa all’insù per seguire l’atterraggio.
Salman era vivo o morto? Mi stavano portando a vederne il corpo? Quando avrei potuto sperare di avere speranza? Non avevo speranza. Non ancora. Cercavo soltanto di respirare. Mia sorella mi ha preso una mano tra le sue e mi ha detto: «Ti voglio bene».
***
Percorro un atrio illuminato da luci al neon. Tutto intorno, ovunque, ci sono uomini armati. Da quando siamo atterrati, nessuno mi guarda negli occhi, nemmeno quando mi parla. Stanno per accompagnarmi da Salman, che si sta riprendendo da un intervento chirurgico di otto ore. Ho un formicolio alle gambe e negli occhi. Non devo ancora dire addio a mio marito, mi dico. Non sta per morire. Supereremo tutto questo, anche se non so ancora come.
Il corpo di Salman giace immobile su un letto sollevato. Il silenzio della camera è intervallato da segnali acustici e ronzii. Il più rumoroso è quello del respiratore.
Sulla soglia della porta aperta, mi fermo. «Salman», bisbiglio. Non può sentirmi. «Oh, amore mio, che cosa ti ha fatto?». Inciampo e mia sorella e mio cognato mi soccorrono. Quando riesco a rimettermi in piedi, mi avvicino a Salman, che non si muove. Al suo fianco, le mie mani cercano la sua pelle per accarezzarla. Può accorgersi della mia presenza? Salman è incosciente, ma voglio pensare che sappia che sono qui con lui.
Le unghie delle sue mani sono incrostate di sangue. Il lato del viso che ha patito il danno maggiore è un intrico impressionante di punti. L’orecchio destro è pressoché una poltiglia. L’occhio destro è coperto. Dalle sue labbra blu sporge ricurvo il respiratore. La sua carnagione è una tavolozza blu, grigio, rosso, viola, giallo e nero. Sulla sua testa calva c’è un lungo squarcio.
Il coltello, penso, mentre questa parola si materializza vivida. Qualcuno mi sta parlando di molteplici ferite da accoltellamento, mi dice dove sono, cosa hanno provocato, che cosa si può sperare. Per fortuna, la lama non ha colpito nessun organo, anche se è passata radente alla trachea da un lato all’altro sulla gola di Salman, quasi decapitandolo.
Quando un’infermiera solleva la garza che copre l’occhio destro di Salman, vedo all’interno della cavità incrinata che il suo bulbo oculare, gonfio e sminuzzato, sembra schizzare fuori dalla palpebra ferita. Sembra che l’occhio sia stato compresso attraverso un tubo. Mi viene in mente un uovo semiliquido, con macchie nocciola e verdi che un tempo formavano qualcosa di riconoscibile, un occhio che apparteneva a un uomo di nome Salman Rushdie. Non serve che mi dicano che mio marito ha perso quell’occhio.
Per settimane, durante la sua convalescenza, non permetto a Salman di guardarsi allo specchio. So che, se si vedesse come lo vedo io, ne ricaverebbe un trauma capace di compromettere la sua guarigione.
***
La prima sera dopo la rimozione della cannula per l’intubazione, Salman non riusciva a smettere di parlare. Le parole gli uscivano dal corpo come i fluidi delle sacche delle flebo che si riversavano nelle sue vene, tenendolo in vita mentre gestiva il dolore intenso.
«Amore», ha gridato verso di me. «La lezione che ho appena ricevuto è che la vita è bella. Lo giuro, io volevo soltanto bellezza e… guarda che cosa è successo. Non ho mai voluto niente del genere».
Salman mi ha chiesto scusa più volte. A un certo punto ha detto di volersi scusare con mio padre, per non aver potuto proteggermi dalla sua vecchia vita. Ha detto che temeva di rovinare la mia, trascinandomi all’interno dei suoi lunghi corridoi dorati, dove le cose sono meravigliose e pericolose allo stesso tempo.
Ho rammentato a Salman che tutta la vita deve essere vissuta affrontando ciò che è meraviglioso e terrificante. Anche questo, gli ho detto, rientra nel cercare di amare qualcuno. «Come potrai amarmi adesso?», ha chiesto. «Hai paura? Eliza, tu sei il mio miracolo».
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Il sesto giorno di ospedale ho imboccato mio marito, avvicinando alle sue labbra screpolate cucchiaini di gelato al cioccolato. Il suo sorriso rimarrà sempre sghembo, a causa dei muscoli recisi. Il lato destro della sua faccia è un labirinto sconnesso di pelle lacerata. I lividi formano un urlo rovente viola e rosso. Durante l’aggressione, Salman ha sollevato la mano sinistra per proteggersi il viso e il collo. Il coltello è penetrato quasi completamente nella sua mano. Tendini, legamenti e muscoli devono essere riattaccati. Pur avendo mantenuto la flessibilità, la sua mano sinistra ora assomiglia a un guanto. Non ha sensibilità in tre dita.
***
Per fermare la giostra dell’orrore nella mia testa, in quei giorni ho scioccamente cercato di parlare e ascoltare chi lavora in un reparto traumatologico. Erano i nostri angeli. Come noi, hanno dedicato le loro vite agli altri e facevano quello che anche gli scrittori cercano di fare: studiare le ferite, analizzare il dolore, sondare la portentosa anatomia dei nostri corpi e della nostra immaginazione. In modi diversi, tutti noi cerchiamo di salvare vite e di guarirle.
Una notte ho chiesto alla giovane guardia medica seduta fuori dalla camera di mio marito cosa pensasse del dolore e della speranza. Volevo sapere perché aveva scelto quella carriera, e come riusciva a sopportare tutta la sofferenza cui assisteva. Nelle due ore precedenti avevamo sentito un uomo sgolarsi implorando l’aiuto di Gesù Cristo, poi era intervenuto un infermiere. «Prima di lavorare qui, avevo un’anima», ha detto con voce spezzata. «Adesso non ce l’ho più».
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Alla fine di settembre, Salman e io ci svegliamo in un appartamento sconosciuto, messo a nostra disposizione da alcuni amici perché non possiamo tornare a casa nostra per motivi di sicurezza. Non so se potremo farlo mai, né so quello che la parola “casa” significherà per noi da adesso in poi. Eccoci qui, comunque, finalmente soli, in questa prima mattina della nostra nuova vita, dopo aver lasciato la riabilitazione. Per evitare la stampa ed evitare di essere seguiti, abbiamo dovuto andarcene scortati dalle guardie della sicurezza a notte fonda.
Osservo il profilo di Salman appoggiato ai cuscini. Ha il respiro leggero. Guardo il suo occhio destro, uno squarcio luccicante ricucito, senza speranza di potersi rimarginare. Lascio che il mio sguardo passi sul suo avambraccio sinistro ingessato, piegato a un’angolazione innaturale. Ricordo di aver stretto quella mano mentre guardavo un dottore che a Erie ha conficcato un ago nella palpebra destra di Salman per fissare i punti nell’occhio destro. Ricordo di aver cercato di non perdere i sensi quando mi sono apparse davanti agli occhi delle macchie nere e la bocca mi si è riempita di vomito.
Nel dilatarsi della luce del mattino, nel palmo della mano di Salman compare ancora sangue secco incrostato, che i suoi terapisti impiegheranno settimane per rimuovere. Ma è qui, accanto a me, penso. È questo che conta. Piango di sollievo. Dentro di me qualcosa che non riesco a definire a parole sta morendo. Io non sono stata accoltellata, ma anch’io sono ferita. E resterò così per sempre.
***
Più tardi, quella stessa mattina, Salman mi raggiunge in bagno per il suo primo taglio di capelli dopo l’aggressione. Durante il Covid sono diventata la sua parrucchiera, cosa che ci ha molto divertito. Mentre gli spuntavo e tagliavo i capelli, ascoltavamo sempre Bob Marley, Motown, Dylan, i Beatles e gli Stones. Ci piaceva l’intimità di quella situazione così ordinaria.
Oggi, invece, siamo esausti. Salman si siede lentamente su una sedia che ho sistemato al centro di un bagno elegante che non ci appartiene. Tiro fuori le forbici e il taglia-capelli. Aiuto Salman a sfilarsi la maglietta degli Yankees dalla testa, mentre tiene in disparte il braccio ingessato per evitare che gli faccia male.
Sono sommersa dalle vertigini quando inizio a girargli attorno, permettendo ai miei occhi di soffermarsi sulla devastazione del suo torace. Ho le forbici in mano. Provo nervosismo a stargli accanto con qualcosa di affilato in mano. Lui inclina la testa, chiude l’occhio. Con me si sente al sicuro. Cerco di lavorare con rapidità. Le ciocche di capelli cadono sul pavimento. Gli chiedo se soffre. Provi dolore, Salman? Io ne sono pervasa. Ho dei flashback. I suoi capelli impregnati di sangue. I punti di metallo che tenevano insieme la sua faccia. Le prime parole che mi ha bisbigliato quando gli hanno tolto la cannula del ventilatore dalla gola.
Mi è difficile respirare a fondo. Quei ricordi mi scuotono e si agitano in tutto il mio corpo come lava ribollente, torcendomi le reni mentre strizzo le palpebre e cerco di concentrarmi.
Non guardo la nostra immagine nello specchio del bagno. Vedo però le sagome indefinite dei nostri corpi nel riflesso della grande porta a vetri della doccia. Giro attorno a Salman con le mani sollevate, lo sguardo esitante. Non lascio mai cadere le forbici. Quando finisco, oscilla tutto, compreso mio marito. Non voglio che Salman assista agli attacchi di panico contro i quali devo combattere ogni giorno.
«Sopravvivremo a tutto questo», dice a un certo punto, mentre spazzolo via dalle sue ferite i capelli tagliati. Sta per fare la prima doccia della sua nuova vita. Apro la porta di vetro, apro il getto dell’acqua.
«Vuoi restare solo?».
«No», dice. Mi guarda con il suo unico occhio. Il suo sguardo mi ricorda che è il mio migliore amico. È la mia gioia.
«Sopravvivremo a tutto questo», ripete avvicinandosi.
***
Una mattina di gennaio. Siamo finalmente a casa. È il 2023. Prendiamo il caffè, ridendo e cercando di non pensare al nostro futuro. Per adesso esistiamo nel presente, consapevoli che le nostre vite non potranno mai tornare com’erano. Questa accettazione si evolve discontinuamente. Talvolta il coltello si palesa come una densa ombra di dolore o di rabbia. Altre volte è come se quel giorno di agosto e tutto ciò che ne è seguito fossero soltanto un brutto sogno.
La realtà, invece, è che sono ancora alle prese con un grave disturbo da stress post-traumatico. Salman, cieco da un occhio, non ha ancora imparato ad accettare questa sua lesione permanente se non per rammentare a sé stesso che sarebbe potuta andare peggio. Avrebbe potuto morire. Salman mi guarda, mi prende la mano con la sua mano ferita. Il volto gli si illumina. Mi dice che sta cercando di scrivere della sua aggressione. Temevo che l’avrebbe fatto: per mio marito scrivere è respirare.
Sappiamo che Salman è all’inizio di una nuova storia. Questa storia vera, intitolata Knife, non parlerà di città magiche o incantate, ma sarà partorita dalla stessa immaginazione che ha creato quelle altre. Salman Rushdie non sarà soltanto un simbolo di libertà, ma un uomo in carne e ossa il cui semi-omicidio lo ha riconnesso a una battaglia umana più grande, la lotta per cercare di comprendere il nostro mondo contemporaneo nel quale la violenza soffoca la pace.
Knife è un racconto profondo che non evita l’amore ma lo espande, offrendoci tutta l’intelligenza di Salman, il suo umorismo, la sua verità, la sua appassionata difesa delle nostre libertà e dei nostri diritti di esseri umani.
Vivendo qualcosa di così difficile e stupendo, non posso dimenticare la magnificenza dei miracoli che mi sono stati concessi – e sono stati concessi a Salman e me – per restare vivi.
Spero che la donna e la scrittrice che sto diventando possano guardare indietro a questa storia personale e continuare ad armarsi di amore. Non ringrazio o perdono il coltello che per poco non ha ucciso mio marito. Ma celebrerò sempre le forze del bene che lo hanno riportato a casa da me.
© rachel eliza griffiths, 2024, The Guardian
traduzione di Anna Bissanti