La Stampa, 9 maggio 2024
Michela Murgia e i giovani
All’inizio me la ero bevuta pure io la storia che i giovani fossero il futuro del mondo. A sedici anni la parola futuro – mio o del mondo che fosse – era distante quanto la costellazione di Andromeda. Mi rotolavano in bocca meravigliosi plurali, come dolci troppo grandi da ingoiare tutti interi: Voi Giovani. La Gioventù. Le Giovani Generazioni. Non so perchè quando si dice “giovane” non lo si coniuga mai semplicemente al singolare. I Giovani nel linguaggio comune sono sempre una misteriosa entità collettiva. Non importa se poi si invecchia soli, giovani lo si è comunque insieme. Sarà per via di questa convivenza forzata che a un certo punto mi sembrò impellente abbandonare il condominio rumoroso della Gioventù e scappar fuori a reclamare la mia adulzia. Va bene, lo ammetto: la parola adulzia non esiste. L’ho inventata io, ma del resto le parole sono tutte inventate. Me la sono costruita come atto di giustizia semantica e venga pure l’Accademia della Crusca a spiegarmi perchè i giovani hanno la Gioventù a regalargli un nome collettivo e invece un adulto deve essere adulto per conto suo. Ricordo che pensai: «È questo crescere? Dover trovare altre parole per dire chi si è?». Mi sentivo come Adamo nel Giardino delle cose fresche di creazione, ancora tutte senza nome; ma la mia esultanza di forgiatore di lemmi è durata poco. Ho capito quasi subito perché il termine non era mai stato inventato: non serviva. Gli adulti l’adulzia non la vogliono. Per loro è fondamentale restare giovani-dentro. Ad ogni compleanno, a ogni incontro casuale dopo molto tempo, tutti a dire che l’importante è quello. A cosa serve la parola adulzia se nessuno diventa mai adulto e tutti vogliono restare giovani-dentro, piedi avanti e testa rivolta all’indietro, a guardare l’orizzonte al contrario mentre pregano che esista un Botox per l’anima. Deve essere lì che ho cominciato a pensare che “giovani-dentro” fosse un altro modo per dire “ritardati”. Per fortuna ogni tanto, non spesso, mi capita di incontrare qualcuno che non si vergogna di essere adulto-dentro. Lo vedi da come non si impossessa dei sogni dei suoi figli, da cosa compra quando ha già quello che gli serve per campare, dal modo che ha di guardarti, senza il rammarico di chi è sceso dal treno alla fermata sbagliata e non riesce più a risalirci. È davanti a un adulto così che capisco perché Dio ha stipulato il primo patto non con un giovane, ma con un vecchio sterile, capace di vedere le stelle senza la pretesa di contarle tutte. Nessuna età ha addosso da sola la responsabilità di ogni futuro possibile, ecco perché alla favola disastrosa che i giovani siano il futuro del mondo ho smesso di credere da un pezzo. Preferisco andare in cerca di adulti-dentro e cercare di somigliargli, perché nei loro occhi il futuro si intravede possibile e vicino, a portata di speranza. Con buona pace dei vuoti ideologici dei vocabolari, io questa continuo a chiamarla adulzia. —