La Stampa, 9 maggio 2024
Intervista a Enrico Ruggeri
Enrico Ruggeri ha la voce di uno che ha passato gli ultimi cinquant’anni a cantare su un palco e quando inizia a parlare sembra di ascoltare una storia diversa per ognuno di quei milioni di palchi. Ha scritto un’autobiografia attraverso le sue canzoni, 40 vite (senza fermarmi mai) – citando la sua Vivo da re, un manifesto programmatico scritto a 17 anni – e venerdì la presenterà al Salone. Il suo libro è un lungo viaggio attraverso la vita e la musica. Una musica che un tempo era fatta da grandi personaggi che potevano ispirare e cambiare le vite. Oggi, un po’ meno: «Se fossi un dietrologo direi che a un certo punto qualcuno ha spinto l’industria discografica verso la banalità. Forse i cantati erano un po’ troppo importanti. John Lennon, Bob Dylan fermavamo le guerre, facevano cambiare opinione alla gente e vendevano anche i dischi. Non sono stati i discografici a determinare il cambiamento di rotta. Ma qualcuno forse aveva interesse a intorpidire le coscienze».
In quanto a coscienze e formazione, la sua produzione musicale è sempre stata legata alla letteratura, anche più di altri cantautori?
«Sì, perché per la mia generazione e per quella che mi ha preceduto, quelle dei grandi cantautori, era così. Prima di tutto eravamo grandi lettori. I miei riferimenti letterari sono tantissimi. Non posso dire di aver letto tutto di tutti i grandi russi, perché nessuno lo ha fatto davvero, ma ecco, ne ho letti parecchi. Così come tantissimi francesi, con un occhio di riguardo per Simenon».
Che cosa hanno portato nella sua scrittura quei grandi autori?
«Sicuramente le atmosfere, la tensione verso la poesia, il gusto del dettaglio. In Bratiska, una canzone che amo molto, c’è questo amore folle che si consuma tra Mosca e la Pietroburgo zarista, ma a un tratto compare lontano un Equatore, mai visto e solo sognato, come in Salgari».
Questi tempi, in generale, paiono meno letterari. Come vede l’Italia di questi giorni?
«È un momento molto incattivito, e questo spirito del tempo temo non porti da nessuna parte».
La destra al governo sembra che da una parte ringalluzzisca gli uni e dall’altra incattivisca gli altri.
«Il meccanismo mi pare questo e credo non sia un bene. Ma mi rendo conto che chi governa ha potere un po’ dappertutto ed è felice di gestirlo e chi l’ha perso si danni per averlo perso. Detto questo tutto è diventato tifo, banalizzazione, tutti contro tutti. Il danno maggiore è che così non si approfondisce nulla, vince chi banalizza».
Lei è spesso stato incasellato come intellettualmente di destra, ma ha sempre rivendicato di non essere organico a nulla.
«Perché è così: non voglio essere incasellato. Uno non ha delle opinioni che discendono dalla casella in cui gli altri lo rinchiudono. Sono una persona libera, non ci sono altri a decidere quello che devo pensare».
Negli ultimi anni lei è stato attivo sui social, con opinioni a volte impopolari. Come ha vissuto le critiche?
«Come lo pretendo per me, anche io rispetto chi ha idee diverse dalle mie e me le sbatte in faccia. Però francamente non capisco perché dovrei spaventarmi per il primo che passa e mi viene a dire “taci e pensa a cantare”. Ma perché non dovrei essere autorizzato a dire la mia? Io da sempre giro il Paese in lungo e in largo, ascolto la gente, ci parlo insieme. Ma a un certo punto è diventata comune questa cosa di dire ai cantanti di farsi gli affari loro e cantare. Ma non vedo perché, con tutto il rispetto, l’idraulico che mi rinfaccia quello che dico si senta più in diritto di me di dire la sua. I social hanno creato questa illusione della contiguità con persone che altrimenti non avremmo mai incontrato e questa cosa è fantastica se la si usa bene. Meno fantastica se si usa Twitter per mandare a quel paese il Papa».
Questo suo libro è attraversato dai racconti del rapporto con suo padre, il dolore per la sua perdita, per la sua malattia. Aveva bisogno di fare i conti con lui?
«Il rapporto con mio padre è sempre stato difficile e a cominciare da Polvere, molte mie canzoni hanno parlato di lui. Credo che scriverne sia stato terapeutico, in tanti hanno curato le loro mancanze, i loro dispiaceri scrivendo».
Con lei ha funzionato?
«Direi di sì, lo diceva già Kafka molto prima e molto più autorevolmente di me: se non avessi scritto sarei finito in manicomio».
Una canzone più di tutte le ha dato la patente di autore che ama e sa capire le donne. Perché nel libro la definisce “la famigerata”?
«Nel senso letterale, perché la fama di Quello che le donne non dicono forse è maggiore rispetto al suo valore. Credo di aver scritto alcune canzoni più poetiche sulle donne. Ma il successo di un brano dipende dall’allineamento dei pianeti».
Altre canzoni sembrano il contraltare di “Quello che le donne non dicono”, da “Vivo da re” a “Dalla vita in giù”. Possiamo dire che sono canzoni molto oneste?
«Vivo da re l’ho scritta a 17 anni, una fantasia su quello che sognavo della vita da musicista, piena di donne, vuota dell’unica che avrei voluto. Con Dalla vita in giù volevo dichiarare le mie debolezze fin dall’inizio. In genere gli uomini nel corteggiamento sono un po’ come i politici: fanno grandi promesse che poi non manterranno».
Tanto vale partire con la sincerità: “Non mi so contenere appena non ci sei”?
«Meglio mettere le mani avanti». —