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 2024  maggio 09 Giovedì calendario

Intervista a Damiano Michieletto

A Damiano Michieletto non dispiacciono i fischi del pubblico, il dissenso rumoroso, le spine nel fianco. «Essere maltrattati fa bene, mantiene svegli», dice alla Stampa in una delle poche, brevi pause durante le prove del Don Quichotte, l’opera di Jules Massenet (la sua ultima, del 1901) ispirata al capolavoro di Cervantes, che debutterà domani 10 maggio al Teatro dell’Opéra Bastille a Parigi. E sarà la prima volta che, in quel teatro, a dirigere un’opera francese ci sarà un italiano. «L’unico regista teatrale italiano da esportazione», lo definiscono ogni tanto ed è vero: all’estero è richiesto, apprezzato, molto à la page. E lo è anche in casa, dopo i primi anni turbolenti, quando era più facile che gli dessero del provocatore che del genio.
Negli ultimi sei mesi, tredici suoi spettacoli d’opera, sono stati rappresentati in tutto il mondo. Prima di arrivare a Parigi, ad aprile, ha portato la sua Carmen alla Royal Opera House di Londra (dove, nel 2015, venne duramente contestato il suo Guglielmo Tell di Rossini, e non alla fine dello spettacolo ma, rarità rarissima, durante: il pubblico non gradì la scelta di mostrare uno stupro, e la sua vittima nuda, anche se per pochi secondi).
Dopo Parigi, è atteso a Lione, Francoforte, Tokyo, Genova, Madrid, Spoleto. Nel 2025 dirigerà per la prima volta Wagner all’Opera di Roma e la prima mondiale di Il nome della rosa alla Scala.
Non gli piace venire chiamato maestro. Racconta spesso di non averne avuto nessuno.
Michieletto, lei è pop?
«No».
Snob?
«Ma neanche per sogno!».
Genio?
«Sono solo uno che non si accontenta e lavora senza filtri e maestri. Cerco di avvicinarmi all’autenticità».
Prima la consideravano un enfant terrible, ora un’eccellenza internazionale.
«Di certo non sono più un enfant! Ho 48 anni. E i fischi mi capita di prenderli ancora. In Francia, per esempio, la critica mi ha sempre maltrattato, anche se alcuni miei spettacoli continuano a essere dati».
Cosa le hanno contestato?
«Semplicemente, sono un italiano che fa opere francesi e quando un italiano fa delle cose francesi, c’è più diffidenza. Ci sta, è una cosa con cui fare i conti. Vedremo con questo spettacolo».
Ce lo racconti.
«È un’opera che non conoscevo prima di farla, ma conoscevo il compositore: di Massenet ho fatto la Cenerentola, che avevo amato molto. Nel Don Quichiotte ho ritrovato lo stesso stile fantasioso e la stessa tenerezza».
I suoi Don Quichotte e Sancho Panza, in scena, sono in pantofole.
«Vivono tra sogno e realtà, e ho voluto restituire la scissione, schizofrenica anche, che ne consegue. Il mio Don Quichotte è un artista e per lui è anche peggio. Ho raccontato la sua sofferenza, la solitudine, la nostalgia, le frustrazioni, i desideri, i rimorsi, e come lui ne sia, a un certo punto, dominato».
Quel farsi dominare va rivendicato?
«Io credo di sì. Credo si debba anche perdere il controllo».
Nell’arte esiste il fallimento?
«Non dovrebbe. Così come non dovrebbe esistere la competizione, che adesso, invece, è stata esasperata ed è diventata un criterio. Però la libertà non è misurare il tuo lavoro in base al giudizio che immagini di ottenere ma in base a quanto riesci a essere onesto con te stesso, verso il tuo lavoro e quello in cui credi».
Prova mai fastidio per l’ostinazione di Don Quichotte?
«Sono un romantico ostinato anche io, come potrei? Per lui non provo che tenerezza, talvolta, quando è ingenuo e si fa pregare, rabbia. Ma anche quando mi arrabbio, ho verso di lui l’atteggiamento di Sancho Panza che comunque gli resta accanto, e si fa trascinare».
Che significa dirigere un’opera lirica?
«In sintesi, significa raccontare una storia attraverso le parole e la musica per emozionare il pubblico».
Una cosa tanto semplice come mai risulta tanto ostica, complicata, d’èlite?
«Credo sia giusto che la lirica non interessi un ragazzo ma qualcuno di più maturo. Perché è qualcosa a cui si deve arrivare. È come il vino; se lo dai a un bambino, non gli piace. Mi sono reso conto che non si deve fare l’errore di abbassare una qualità per arrivare a tutti: arrivare a tutti è un obiettivo qualunquista, oltre che impossibile. La lirica ha un linguaggio complesso ed è un genere antico dove si canta senza microfono: tutto questo può farla risultare antiquata. Che facciamo, la modernizziamo e la snaturiamo perché qualcuno non vuole fare la fatica necessaria per capirla?».
Ha mai pensato, quando la fischiavano: questi non capiscono niente?
«Mai. Chi paga un biglietto, ha diritto di dire se gli piace o no. Non c’è qualcuno che ha ragione e qualcuno che ha torto. Uno racconta una storia e uno la ascolta».
La cosa migliore che le è successa mentre dirigeva?
«Quando alla Fenice di Venezia ho fatto The Rake’s Progress di Stravinskij. Il secondo atto si apre in un bordello, e io avevo ambientato la scena in una piscina piena di soldi, dove c’era un grande materasso, sul quale ho voluto che ci fosse un’orgia a cui partecipasse tutto il coro, con una mimica molto esplicita, pulp. Ricordo che il direttore di scena mi guardava dalla quinta durante le prove e scuoteva la testa, convinto che nessuno del coro si sarebbe prestato. Un paio di signore mi dissero infatti che lo trovavano volgare, io spiegai loro che non c’è niente di volgare in una prostituta che fa il suo lavoro. La prima sera lo spettacolo andò maluccio. La seconda, invece, il coro si scatenò. Da allora, tutte le volte che torno alla Fenice, mi chiedono: quando rifacciamo The Rake’s Progress?».
Quali strumenti suona?
«Chitarra e clarinetto».
Ultimo concerto visto?
«Calcutta a Milano. Super».
Come vorrebbe essere ricordato?
«Uno che ha avuto fantasia».
Cos’ha capito delle persone?
«Che sono tutte diverse ma hanno gli stessi bisogni: amore, protezione, dare un senso alle giornate».
Lei è pagato bene?
«Sì».
Più all’estero che in Italia?
«Non c’è grossa differenza. Poi, certo, dipende dai teatri, ma in generale il paragone tra i teatri lirici italiani e quelli europei regge: il finanziamento pubblico arriva ed è generoso. Ai teatri di prosa invece non arriva quasi niente. Nessun teatro italiano ha una compagnia fissa. Se vai in Germania ogni teatro ne ha una di minimo 30 attori fissi, cosa che permette di fare una programmazione e creare una circuitazione che da noi non esiste».
Lei è ricco, quindi?
«Sì».
C’è qualcosa che la mette a disagio dei privilegi che trae dall’essere un maschio bianco occidentale ricco?
«Il terrore di non riuscire a usare al meglio la libertà che tutto questo mi regala, facendo qualcosa di buono per me e per gli altri».
Cos’è il coraggio?
«Affrontare la complessità». —