il Giornale, 8 maggio 2024
I giudici hanno aspettato cinque mesi prima di arrestare Toti
G li italiani devono sapere che per quasi cinque mesi è circolato un individuo «socialmente pericoloso» che poi è Giovanni Toti: è questa l’attribuzione di chi incorre nel rischio di «reiterare il reato» ed incorre nel rischio di poter fuggire dal Paese o peggio occultare le prove sparpagliate negli ultimi anni, e insomma, è questo, oggi, in Italia, che dovrebbe motivare ufficialmente un arresto: ed è appunto dal lontano 27 dicembre che questo ordine d’arresto attendeva di essere firmato dal giudice, mentre Toti circolava incredibilmente libero. A fare i precisi, non sono neanche cinque mesi, ma più di tre anni con Toti intercettato di conseguenza: da cotanto tempo duravano le indagini, ma ecco, l’urgenza degli arresti (domiciliari, ma arresti) è scattata proprio ora, a venti giorni dalle elezioni europee: segno che in Italia si vota troppo spesso. Una precisazione necessaria ai tempi dei social network: stiamo facendo ironia.
Ne suscita altrettanta la lettura del delizioso comunicato stampa della Procura, secondo il quale l’applicazione delle Legge Cartabia sulla presunzione d’innocenza (2021) significa scrivere «fatta salva la presunzione d’innocenza» e citare la Costituzione e la Convenzione europea, salvo sciorinare ogni dettaglio possibile a sostituzione materiale degli ordini d’arresto (comunque circolati, con tanto di intercettazioni) ma non basta: il comunicato fa notare che, attenzione,
possono dimostrare la propria «estraneità ai reati per cui si procede» anche «le aziende coinvolte ma non destinatarie di contestazioni»; ossia, traduzione: sono loro a dover dimostrare la loro innocenza, anche se non risultano indagate. Chiamasi, in gergo, «inversione dell’onere della prova», in omaggio alle mostruose «misure di prevenzione» che ufficialmente le magistrature mondiali ci invidiano ma che per qualche ragione nessuno ci copia. Toccherà ad altri, per il resto, spiegare come «sbloccare pratiche», «trovare soluzioni» e fruire di spot pubblicitari sia traducibile in corruzione, e quanti elettori prossimi venturi, viceversa, tradurranno in un altro modo.
Per il resto il pesce puzza dalla testa e l’inchiesta di questo sa: di pesce. Sarà per gli ambienti portuali, o perché la rete dell’inquirente sembra uno strascico che ha raschiato una modesta paranza grattata per anni (i fondi marini e politici non sono quelli di una volta) sinché d’un tratto, come pescato in tutt’altro mare, è comparso un nasello come Giovanni Toti avvolto in un tramaglio che sembra diviso in tre come il comunicato un po’ dilettantesco vergato dal pm Nicola Piacente, di scuola milanese benedetta da Armando Spataro.
Ecco i tre tramagli della paranza: il presidente della Regione è indagato per 1) una «corruzione» generica e alla luce del sole da non confondere con una 2) seconda «corruzione» meno generica e più da strapaese a beneficio di Paolo Emilio Signorini, già presidente dell’Autorità
portuale e confortato da qualche mancia (15mila euro) ma soprattutto da soggiorni a Montecarlo con «servizi in camera», maliziosi «massaggi», un posto-spiaggia, biglietti per il torneo di tennis, seratine musicali, fiches per il casinò, borsa e bracciale griffato, passaggi in auto, il catering nuziale per la figlia, un Apple Watch e altri benefit da film di Vanzina, da non confondere con una 3) diversa e altra «corruzione elettorale» combinata dal capo di gabinetto regionale Matteo Cozzani (in pratica un voto di scambio senza lo scambio, art. 86 – 570/1960) e questo addirittura con «la mafia», che poi sarebbero i 400 voti di una comunità genovese originaria di Riesi (Caltanissetta, Sicilia) manovrata da Arturo e Maurizio Testa, due gemelli completamente calvi che vivono nel bergamasco ed erano di Forza Italia, ora sospesi (sembra complicato, e lo è) ma che secondo il pm indirizzarono i voti siciliani a favore della lista «Cambiamo con Toti Presidente» (2020) e che fecero distribuire i voti a più soggetti tra i quali solo uno è indagato.
Dettaglio: per i gemelli ex siciliani e per il capo di gabinetto regionale Cossani (più qualche altro impigliato nella paranza, come un ex sindacalista Cgil) c’è l’aggravante di aver agevolato «l’attività dell’associazione mafiosa Cosa Nostra». Manca giusto il terrorismo, nella paranza, ma forse non abbiamo guardato bene