La Stampa, 8 maggio 2024
Parla Violante
Luciano Violante, ex presidente della Camera, professore universitario di diritto penale e magistrato, è nato molte volte. La prima, quando sua madre lo ha partorito, il 25 settembre del 1941, a Dire Daua, Etiopia, in un campo di concentramento senz’acqua, infestato dai pidocchi. Le altre prigioniere le avevano consigliato di abortire: come puoi mettere al mondo un bambino in quest’orrore, in questa “pattumiera inglese”? La seconda, che ne ha contenute molte, nel 1943, quando sua madre lo ha protetto mentre scappava, a piedi, da Napoli alla Puglia, per raggiungere suo padre, giornalista comunista. L’altra, quando sua madre lo ha abbandonato ed è andata via di casa: lui aveva 11 anni e lei non sopportava il marito, suo padre, che aveva addosso il trauma del campo e della guerra, e una volta le aveva persino chiesto: suicidiamoci insieme. L’altra ancora quando lui era appena stato eletto alla Camera, lei è tornata e gli ha raccontato la sua, la loro storia, anche se non tutta: non si deve sapere tutto, diceva.Nelle ultime pagine del suo ultimo libro, Ma io ti ho sempre salvato (Bollati Boringhieri), un saggio breve sull’innamoramento del nostro tempo per la morte, sull’incapacità di riconoscere e difendere il valore della vita umana, Luciano Violante racconta questa storia. Nella postfazione aggiunge che, mentre chiudeva il libro, è morta sua moglie (Giulia De Marco, giudice). L’ultima cosa che gli ha detto, è stata: «Adesso vai a dormire, altrimenti mi preoccupo». «Ma io ti ho sempre amato», invece, è l’ultima cosa che sua madre gli ha detto prima di morire.Violante, si è messo a nudo.«Era un dovere verso mia madre. Perché mi ha dato la vita, mi ha salvato e, anche se il suo abbandono, è stato un trauma, dopo è tornata a cercarmi e siamo riusciti a riannodarci. Ho più di ottant’anni: è arrivato il momento di dirle che le sono grato, che ho capito, e di restituirle qualcosa».C’è un particolare, nel suo racconto di quando è nato: la compagna di prigionia di sua madre che taglia il suo vestito da sposa, che aveva portato con sé nel campo, per farne le fasce in cui avvolgerla. È quella la “genitorialità sociale”?«Zia Zoe. A lei mia madre mi affidava quando nel campo doveva allontanarsi dal suo posto: la mia culla era un cassetto che vigilavano entrambe, alternandosi. E sì, quella è la genitorialità sociale: crescere i figli di tutti, non solo i propri. Le mie zie, quando mia madre è andata via, hanno cresciuto me e mio fratello e lo hanno fatto splendidamente, sono state strepitose».Le famiglie ora sono più chiuse?«Sono isolate perché sono sole. È venuta meno la comunità e le istituzioni che prima avevano una vocazione comunitaria, la chiesa e i partiti, l’hanno persa. I partiti sono collettività votanti e non più pensanti. Il Papa ha detto: viviamo un cambiamento d’epoca e non un’epoca di cambiamenti».Scrive che in questo cambiamento non siamo stati ancora capaci di darci un destino.«Durante la Guerra Fredda, nei momenti di tensione più alta, vennero firmati accordi per evitare esperimenti nucleari e si fecero trattative per l’esplorazione della luna. Nella guerra fredda c’erano autorità americane e russe che lavoravano affinché il destino dell’umanità proseguisse: preparavano il futuro, curavano il presente. Nonostante tutto».Non dovremmo una volta per tutte accettare che non possiamo dominare niente? Possiamo stare al mondo senza metterci al centro?«Certo. E le dico come: credendo alla vita. Più che alla pace, bisogna credere alla vita. Io credo che la vera battaglia non sia tra guerra e pace, ma tra vita e morte. Pace e guerra riguardano gli Stati, vita e morte riguardano le persone».Ma, in concreto, cosa significa credere alla vita?«Mettere insieme le politiche, che io chiamo “biopolitiche”, che si occupano della vita, e cioè di scuola, sanità, lavoro, retribuzione adeguata. Un buon governo dovrebbe creare un dicastero in cui farle rientrare tutte, una dentro l’altra».La demografia è nel novero?«Fare figli è un fatto privatissimo e non politico».Meloni dice che la denatalità è anche un effetto di una cultura antinatalista.«Credo sia un effetto di molte cose, la più importante delle quali è la scomparsa di politiche per la famiglia».Quindi questa specie di disinnamoramento verso la vita che lei indaga nel libro non c’entra con la denatalità?«No. È che siamo incapaci di comporre i conflitti. Per Machiavelli, il merito della repubblica romana era la capacità di comporre i conflitti prima che esplodessero. Il mondo ha perso questa capacità. Prima c’era la diplomazia, ora ci sono le armi. È venuta meno la cultura del rapporto con l’altro. Posso divagare?».Deve.«In una delle mie prime sedute parlamentari, alla fine degli anni Settanta, ero seduto accanto a un parlamentare pugliese piuttosto aggressivo. Mario Pochetti, segretario d’aula del gruppo comunista alla Camera, uomo inflessibile – una volta redarguì Berlinguer così: “Tu a Botteghe Oscure fai il segretario, ma qui sei un parlamentare come tutti gli altri, quindi vieni a votare in orario come tutti”, e ottenendo un applauso corale dall’aula – gli disse: “Caro Sicolo, qui stiamo per parlare con quelli che non la pensano come noi, perché questo è il parlamento». Ecco, quel “qui stiamo per parlare con quelli che non la pensano come noi” fu per me una grande lezione di democrazia. In quegli anni ci insegnavano: è statisticamente impossibile che noi abbiamo sempre ragione e quelli sempre torto, quindi cercate di capire il punto di ragione degli altri. Non partite dall’aggressione: siamo tutti espressione di un Paese dove ci sono opinioni diverse. E tutte vanno rispettate, non condivise, rispettate».Non crede che il disamore per la democrazia sia anche conseguenza della delusione che ha inferto? Le società occidentali sono state anche ipocrite, classiste, arroganti, incapaci di accogliere le istanze delle minoranze, che quindi si sono polarizzate.«È vero. Ma le nostre società sono fortemente polarizzate perché mancano i mediatori. Il re di Spagna ha tirato fuori un governo da una crisi che sembrava insolubile. I nostri presidenti della Repubblica, in molte situazioni di crisi, hanno risolto con la mediazione. In Francia e in Usa il presidente eletto è capo di una fazione, di una parte, quindi non può mediare o fare compromessi, se posso usare questa parola odiata e nella quale io però credo molto».È una parola democristiana?«Per me è la capacità di vedere che l’altro potrebbe avere un po’ di ragione. Kant diceva che per concludere una pace ci vuole necessariamente una qualche fiducia nella disposizione d’animo del nemico. Ed è intorno a questo che si deve costruire l’unità di una nazione».Come spiega la fascinazione per l’autoritarismo?«Nei regimi autoritari la decisione è in capo a un soggetto che l’assume senza mediazioni e, per questo, sembra più capace di altri. Sembra risolutivo. Ma il punto è che in questo volersi illudere di poter fare da sé, c’è il disprezzo verso l’altro, che non è altro che disprezzo per la vita?».La scomparsa della mediazione in politica ha a che fare con la disintermediazione?«Ora c’è una re- intermediazione: sono comparsi nuovi mediatori, e cioè gli influencer, i social, le piattaforme dove ci si aggrega tra co-pensanti, cioè persone che la vedono solo nello stesso modo e dove, soprattutto, per ottenere attenzione, bisogna fare e dire cose sempre più estreme».Nel suo libro denuncia la mancanza di una classe intellettuale che si opponga in modo consistente al potere, incluso quello delle piattaforme.«Con il mio gruppo di lavoro facciamo diversi programmi pedagogici per insegnare ai bambini a non farsi usare dai social e, quindi, a usarli al meglio. Mi chiedo: dove sono gli intellettuali realmente interessati a tutto questo? Sono gli intellettuali che devono aiutarci a capire il tempo e gli eventi».Ma sono le compagini politiche che devono coinvolgerli.«L’ultima volta che un partito li ha chiamati a raccolta per chiedere loro che idea avessero di Paese, erano gli anni Settanta, c’era Berlinguer».L’ha fatto il Papa due anni fa.«Sa che la Chiesa, da sola, non va da nessuna parte».Ha definito i partiti” comunità votanti”. Votare è il peggior modo di scegliere?«Beh, dipende da come lo fai. L’altro giorno discutevo del voto elettronico: per me è il contrario della democrazia. Io me ne sto a casa mia e voto e non partecipo a un confronto con l’altro. Per tutta la vita ho creduto di amare la solitudine: quando è morta mia moglie, mi sono reso conto che non ero mai stato solo, perché c’era lei. Ora sono solo».Le leggi sono una forma di sfiducia verso l’uomo?«Lo sono. Machiavelli diceva: non bastano le leggi, ci vogliono i buoni costumi. Ogni legge segna il fallimento dell’etica: siccome non riesco a tenere un comportamento spontaneamente positivo, allora devo imporlo per legge. Ci sono leggi che servono a creare un ordine, e leggi che si basano su divieti e sanzioni che sono il fallimento di etica e pedagogia. Io punto più sulla pedagogia che sulla legge: la legge è sbrigativa, assolve (ti ho fatto la legge, ora sta a te). La pedagogia invece è una fatica molto diversa. E peraltro appartiene a un tipo preciso di intellettuale: l’insegnante. Avremo rispetto per la vita quando impareremo a rispettare gli insegnanti, pagarli come meritano, dar loro fiducia. Il capitale umano si costruisce a scuola. Il punto di trasmissione da una generazione all’altra non è più la famiglia: è la scuola».Passo a una delle sue vite passate, quella da magistrato. Cosa pensa dei test psicologici per i magistrati?«Il test psicologico, così come la separazione delle carriere mira a ristabilire un equilibrio di potere con la politica, perché la magistratura ha preso troppo potere, cosa vera, e anche anomala. Io direi: facciamo un concorso più semplice, valutiamo il candidato dopo due anni di esercizio della professione, perché le complessità davanti alle quali si può trovare un magistrato sono imprevedibili e la valutazione giudiziaria è complicatissima».Fare il magistrato è stato doloroso?«Difficile. Solo a un magistrato è richiesto di essere l’ultimo decisore. Io da studente universitario ho fatto volontariato in carcere. Quando mi è capitata la prima sentenza, la prima decisione in camera di consiglio a Torino, ero il più giovane e quindi stavo zitto. Si parlava di quanti anni di pena assegnare. Quando il presidente mi interpellò, spiegai che 4 anni a Bollate sono diversi da 4 anni ad Agrigento. E quello fu un dato di conflitto notevole. E per quanto ora le cose siano diverse, il fatto che un giudice penale non sappia cos’è un carcere, come ci si vive dentro, è spesso fonte di errori gravi».