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 2024  maggio 08 Mercoledì calendario

Cazzullo intervista Baglioni

I suoi erano così poveri?
«Mio padre, da bambino, mangiava carne due volte l’anno. Fuggirono a Roma dall’Umbria, papà Riccardo da Ficulle, mamma Silvia da Allerona, per sposarsi. Nonna Barbara, detta Serafina, non voleva: “Se lo fate, vengo in chiesa e vi sputo”».
Una donna durissima.
«Piccola, rugosa, due occhi azzurri pungenti come spilli, da cui sprigionava la potenza della sua personalità. Mi pareva la strega delle favole, e la temevo».
Poi in famiglia faceste pace?
«Sì. Tornavamo dalla campagna in treno, con gli animali vivi che ci avevano regalato i parenti contadini. Accarezzavo i conigli, sentivo il loro cuore battere forte, sapendo che non potevo affezionarmi: qualche giorno dopo li avrei trovati nel piatto. E cantavamo per coprire il verso delle galline e non fare insospettire il controllore. Il mio esordio canoro avvenne così».
Galline?
«Le tenevamo nella vasca da bagno, fino al loro sacrificio. Una volò in strada, a Centocelle, con nostro grande imbarazzo e paura che ce la rubassero».
Lei è figlio unico.
«Giocavo da solo, la campagna umbra è il mio paradiso perduto: la stalla, l’aia, il fienile, il pagliaio erano personaggi vivi, come i mulini di don Chisciotte. Volevo un fratellino, ma mi dicevano che i bambini si comprano e costano tanto. Così racimolavo monetine e le offrivo alla mamma, che rispondeva: i bambini sono rincarati».
«Un padre brigadiere che scrive poesie».
«Papà era soldato in Jugoslavia, il suo treno saltò su una bomba dai partigiani di Tito: gli rimase una compressione alla schiena, un’invalidità mai riconosciuta. Da brigadiere fu promosso maresciallo e andò in pensione da sottotenente. Quando gli arrivò il diploma di cavaliere, lo mise in tinello, accanto al divano a cui non si tolse mai il cellophane, dicendo: “Questo me l’ha dato l’Italia”. L’ho pensato anch’io quando il Presidente Mattarella mi ha conferito l’onorificenza, la più alta, di Cavaliere di Gran Croce. Papà era di un rigore assoluto. Il fisco, due volte, gli restituì tasse non dovute. Nel ’68 partecipavo alle assemblee, come moderatore tra maoisti e missini, guardato con sospetto dagli uni e dagli altri. Non avrei mai fatto a botte con carabinieri e poliziotti. Nella divisa vedevo mio padre. Anche se poi lo contraddicevo in tutto».
Ad esempio?
«Sono romanista, mentre lui era laziale. Votavo partito repubblicano, mentre lui era monarchico. Zio Dino, il fratello di mamma, era socialista, ogni primo maggio passeggiava con il garofano rosso all’occhiello e mio padre si preoccupava: temeva una segnalazione negativa per la sua carriera militare».
Un corteo lei l’ha mai fatto?
«Qualcuno. Studiavo architettura a Valle Giulia, anche se mi sono laureato da adulto, studente lavoratore. Un giorno arrivarono i barbuti, i rivoluzionari, e ci fecero uscire dall’aula: “Fuori tutti!”. Mi tirarono una botta alla nuca, ma non mi girai a guardare chi era stato. La rivolta non guarda indietro».
Oggi le università sono di nuovo occupate.
«E a me un po’ di sommovimento non dispiace. È segno di vitalità. Certo, schierarsi tra Israele e Palestina come fossero due squadre per cui parteggiare è sbagliato. Ma questo mondo iperliberista, dove la vita delle persone non vale nulla e ogni cosa è una categoria merceologica, non mi piace».
Ma come la pensa davvero Claudio Baglioni?
«Mi hanno affibbiato tutte le appartenenze. Finii per caso in un manifesto contro il divorzio, insieme con Al Bano, e passai per democristiano. Qualcuno disse di me, come di Battisti, che ero di estrema destra».
In realtà?
«Ho sempre votato nell’area progressista. Ma alle Europee penso di annullare la scheda. Non mi sento rappresentato da questa politica odierna. E non poter scegliere i propri rappresentanti o votare qualcuno che, già sai, non andrà a occupare quel ruolo, toglie valore alla volontà del popolo sovrano. E comunque distinguo tra cittadino e artista militante».
Perché?
«Perché l’artista nasce solo e muore solo. È un solista. Un po’ narciso, un po’ esibizionista. Di rado ha spirito di servizio».
Era meglio Berlusconi?
«Berlusconi non l’ho mai votato. Ma quando scrissi a tutti i leader per porre la questione Lampedusa, dove poi ho organizzato per dieci anni il festival O’ Scià, il primo che dopo tre ore mi telefonò fu lui: “Baglioni, lei e io facciamo lo stesso mestiere”. Risposi, credendomi disinvolto e spiritoso, che io non avevo mai fatto il presidente del Consiglio».
È vero che Berlusconi doveva cantare nella sua trasmissione con Fazio?
«Dopo il successo di Anima mia, con Fabio facemmo L’ultimo valzer. Berlusconi aveva deciso di cantare “Que reste-t-il de nos amours” di Charles Trenet. Gli facemmo sentire le basi, era tutto pronto, lui fece la prova e se la cavava bene; ma all’ultimo momento rinunciò. Forse temeva una trappola in quel covo di barricaderi comunisti».
Qual è il suo primo ricordo, oltre al muro che sudava?
«Avevo tre anni, dovevo essere operato di tonsille; scappai tra le gambe degli infermieri. Mi ripresero in strada, acciuffandomi per i capelli. Che responsabilità si presero. Togliere le tonsille a un futuro cantante. Dopo l’intervento però mi diedero un gelato».
Che formazione ha avuto?
«Cattolica. A Centocelle l’unica alternativa alla strada e, peggio, alla delinquenza, era l’oratorio. Provai come chierichetto, ma scampanellai al momento sbagliato. A 12 anni facevo il catechista ai bambini di sei. A 14 sentii la vocazione, insomma la chiamata, e pensai seriamente di farmi prete. Però la mamma, che pure era molto devota, non era convinta».
Su un palco di Centocelle esordì, sessant’anni fa.
«Scoprii che un amico tentava un concorso canoro, e volli provare anch’io. Mia madre sarta fece da costumista: ero vestito di rosa e azzurro, praticamente un confetto a due sessi; inguardabile. Mio padre scelse la canzone: “Ogni volta” di Paul Anka. Provavo le mosse davanti allo specchio di casa, che era dietro la porta dell’armadio”.
Vinse?
«No, ma mi portarono da un maestro di canto, Ovidio Sarra, che si vantava di aver insegnato a Claudio Villa. Poi andammo a Sora a comprare il pianoforte, pagato con un pacco di cambiali».
Primo provino?
«Mamma mi accompagnò a Milano, in una pensioncina senza bagno, con un lavandino da cui scendeva acqua nera. Cantai nell’indifferenza più totale, accompagnato da musicisti svogliati, ne ricordo uno che suonava il contrabbasso fumando la pipa».
Secondo provino?
«Sempre a Milano, stavolta con il pianoforte: “Tu sei per me la più bella del mondo...”. I discografici davano una cena, arrivarono gli invitati, cominciarono a mangiare; mi pareva di essere al pianobar. Mi dissero che le mie cose non funzionavano. Al ritorno, sul tram vuoto e zitto, urlai in faccia a Milano: “Io ce la farò!”».
Perché le sue cose non funzionavano?
«Era ancora l’Italia spensierata degli anni 60, andava la musica yéyé, e io ero triste, portavo gli occhiali spessi e i maglioni neri a collo alto, da esistenzialista, il mio mito, per darmi un atteggiamento, era Juliette Greco. Gli amici mi chiamavano Agonia».
Al provino romano andò meglio.
“Portavo una canzone, Signora Lai, su una donna che tradisce il marito. Con spavento noto che uno dei fonici che mi giudicherà ha il nome appuntato sul camice: S. LAI. Capisco che non posso dargli del cornuto, e cambio il titolo al volo. Signora Lia è nata così».
Si racconta di un concorso a Venezia.
«La Gondola d’Argento, c’era anche Ron. In giuria, i marinai di un nave all’ancora nel porto, cui non importava molto di sentire “Notte di Natale”: “Dio, tu stai nascendo, e muoio io”. Arrivai ultimo; Ron, penultimo. Meditai di lasciarmi cadere in un canale. Ci salvò un folletto che giocava a cantare l’opera lirica: era Lucio Dalla».
E poi scrisse «Questo piccolo grande amore».
«La scrissi come si scrive un testamento. Non pensavo di fare questo mestiere, non avevo la pelle per farlo. Ero un sentimentale come mio padre, mentre avrei voluto essere determinato come mia madre. Ed ero timido: un ragazzo di periferia che non batteva chiodo con le ragazzine. Aspettavamo l’occasione, e la nostra sala d’attesa era il bar della Rca».
Cosa succedeva al bar della Rca?
Nel ’68 partecipavo alle assemblee, come moderatore
tra maoisti e missini. Non mi sarei mai scontrato con i carabinieri: nella divisa vedevo mio padre. All’università un barbuto rivoluzionario mi tirò una botta alla nuca
«Ti davano un libro da leggere, ti consigliavano un film, e ogni tanto per smaltire i solisti creavano un gruppo: voi sarete i Pandemonium, voi la Schola Cantorum… Passavano Morandi e altri artisti famosi, oppure dall’interfono chiamavano per scherzo: “Il maestro Giuseppe Verdi è atteso in mensa”, “qualcuno ha visto il maestro Donizetti?”. Facevo il corista con le sorelle Bertè, Mia e Loredana, e con Renato Zero, che a differenza mia aveva già qualche soldo in tasca, una volta al cinema Farnese di Roma mi pagò il cinema».
Chi è la ragazza di Piccolo grande amore?
«La mia prima moglie, Paola. Non tutto è autobiografia: c’è sempre una componente di invenzione».
Anche in «E tu come stai?».
«Certo. Se fossero tutte storie vere, noi cantautori dovremmo essere stati lasciati centinaia di volte e quindi aver vissuto molte più vite».
Anche in «Mille giorni di te e di me»?
«No, quello è un pezzo della storia con Rossella, la mia compagna, in cui avevamo avuto un lungo momento di distacco».
E «Ragazze dell’Est»?
«Prima che in Italia, avevo avuto un certo successo in Cecoslovacchia e Polonia. Fu a Cracovia, dopo aver suonato il pianoforte all’aperto e aver passato la notte insonne, che sentii la mia vita sterzare e decisi di fare davvero questo lavoro. Mi aggregarono a una band di ragazzi di Cinecittà e ci chiamarono i Sanremo Six. Io rielaboravo l’interludio della Patetica di Beethoven, loro suonavano Santana, ma il pubblico fu conquistato da “La famiglia dei gobboni”».
«Gobbo il padre, gobba la madre, gobba la figlia della sorella...».
«Fummo costretti a sette bis, scanditi dai battimani. Alla fine ero ricco in zloty, che in Italia non valevano nulla. L’ultima sera offrii una cena a trecento persone, e comprai le posate d’argento per mia mamma».
Sì, ma la ragazza dell’Est?
«Erano tante ma una di più: una modella e si chiamava Renate».
Poi andò in America, dove discusse con Battisti.
«Il dirigente della Rca propose un brindisi: “Al nostro cantante che in Italia è primo in hit parade!”. Lucio pensò si riferisse a lui; invece, quella volta, ero io. Ci rimase malissimo».
Anche con De Gregori aveste un battibecco.
«Lui disse in un’intervista, a Re Nudo o al Mucchio Selvaggio, di voler “inquinare il mare tranquillo e tranquillizzante di Mino Reitano e Baglioni”. Io gli risposi, non da una rivista alternativa ma da Sorrisi&Canzoni, che neanche “Buonanotte fiorellino” era un inno rivoluzionario. Ci fece incontrare un impresario di Cesena, Libero Venturi».
E diventaste amici.
«Un giorno andammo a Jesi a sentire un cantautore allora sconosciuto, Angelo Branduardi. Poi passammo a Cesena dall’impresario, a rifornirci di qualche soldo, e decidemmo di proseguire per un nostro “on the road”, c’era anche un amico fotografo, Luciano, detto Lucky. De Gregori voleva andare a Parigi. Io li portai in montagna, sulla Marmolada. La macchina si fermò, gli altri scesero a spingere, ripartimmo. Dopo un paio di chilometri mi resi conto di aver dimenticato De Gregori nella neve. Il Principe, in piedi, rigido come un pupazzo, era piuttosto seccato. Il giorno dopo arrivò la notizia della morte di Pasolini, Francesco disse subito: l’hanno ammazzato».
Suonaste insieme in piazza del Pantheon, come musicisti di strada.
«Pensavamo a un happening; non ci riconobbe nessuno. Provammo con le canzoni più note: un giapponese ci gettò una moneta. E qui le versioni divergono. De Gregori sostiene che ci sono rimasto più male io. Io dico il contrario».
Ogni tanto Baglioni si diverte a suonare senza farsi riconoscere.
«In galleria a Napoli racimolai 12.500 lire; e pensai che mio padre mi avrebbe rimproverato per aver fatto soldi in nero. A Grosseto, Elio e le Storie Tese mi iscrissero in incognito a una loro gara di karaoke. Cantai la mia Strada facendo, e fui battuto da due ragazzine che cantavano Tanta voglia di lei».
Questo piccolo grande amore è stata votata come la canzone del secolo.
«Le musiche di tutto il concept album erano già pronte, ma i testi io non li volevo più scrivere. Alla fine li buttai giù in due settimane, senza usare parole criptiche, ermetiche, con l’intenzione di essere compreso da più persone possibile».
È vero che il brano del titolo lo cantava malvolentieri nei concerti?
«Un artista non ama essere associato a una sola canzone. Così la cambia, la mastica, la rende irriconoscibile. Fa i baffi al suo stesso manifesto. Poi capisce che quella canzone ormai non è più sua, appartiene a tutti. Ad attaccare “passerotto non andare via” però un po’ di fastidio lo provavo. In origine, l’incipit era un altro ma questo colpì i discografici. Ho fatto anche album per i giornalisti (come mia madre mi rimproverava), pensando più alla critica che al pubblico».
Però ha composto «La vita è adesso». Quattro milioni e mezzo di copie, record imbattuto.
«È un disco che farà quarant’anni nel 2025 e che contiene 10 brani; e tutti sono rimasti. L’album d’autore nasce tra il ’60 e il ’70 e muore nel 2000. Oggi, al tempo dello streaming, fare dischi ha poco senso».
Di Sanremo che ricordo ha?
«Nel primo mi sono divertito e appassionato molto. Ho cancellato l’eliminazione. Sono orgoglioso di aver fatto conoscere Mahmood, Achille Lauro, Diodato, Ultimo».
Ultimo aveva vinto nel voto popolare, ci fu una polemica.
«Niccolò ci rimase male, con ragione. La verità è che non hanno senso tre giurie, in contrasto tra loro. Meglio una sola. O decide la giuria degli esperti, o decide la giuria popolare».
E il secondo Sanremo?
«C’erano le navi con i migranti bloccate davanti ai porti. Mi massacrarono di domande, e io volevo parlare del Festival. Dissi quello che ho sempre detto: sono contro l’immigrazione clandestina, sono per salvare le vite umane, sono contro le strumentalizzazioni politiche. Pochi minuti dopo arrivò il tweet polemico di Salvini: “Baglioni, canta che ti passa”. La capostruttura, Teresa De Santis, stabilì che ero fuori, e non sarei salito sul palco. Sanremo era diventato il festival dell’Unità, e io un pericoloso sovversivo, tra Bakunin e Trotzky: una follia. Con Salvini poi ci sentimmo, ci chiarimmo. Ma è stato un po’ più difficile».
Un suo nemico è Antonio Ricci. Ha pure fatto un libro: «Tutti poeti con Claudio».
«È un duello decennale con un solo duellante, lui. Ho provato a chiederne la ragione, mi hanno risposto: è tutto inutile, ti detesta. Non so perché. Mi ha messo anche tra i rifatti, con la disperazione di mia madre che reclamava che non era vero e che avevo la bocca bella come la sua ma il naso grosso come quello di mio padre. Mi sono quasi rassegnato: con la pace dei sensi arriverà anche la pace dei consensi».
Ricci sostiene che lei avrebbe copiato i testi da poeti illustri.
«Ho scritto più di ventimila versi, rispetto ai venti passaggi citati. Ci saranno senz’altro echi di frasi che mi hanno colpito. La creazione nasce anche dalla memoria e dalla rielaborazione. È sempre stato così».
Lei ha annunciato il ritiro dalle scene, anche se continua a riempire i palazzetti, i teatri, a settembre l’Arena di Verona. Perché?
«Subito dopo aver annunciato il ritiro, mi sono detto che avevo fatto una sciocchezza. Ma aveva ragione mio padre. Da ragazzino mi portava a vedere la boxe, incontri in cui pugili dilettanti si massacravano di botte, mentre gli spettatori urlavano di tutto, e lui mi copriva le orecchie perché non sentissi. Papà diceva che un pugile deve scendere dal ring da vincitore, non da suonato. E io ci tengo a essere un suonatore. Una volta avevo l’ufficio vicino a casa di Achille Togliani, che era un uomo bellissimo, una gran voce. Ogni tanto passava la moglie con il porta-abiti, e lo accompagnava a fare ancora qualche serata, anche se appariva ormai anziano. E io oggi ho più anni di quelli che aveva allora Achille Togliani».
Anche lei, come De Gregori, come Morandi, subì una contestazione.
«Al concerto per Amnesty, a Torino. Peter Gabriel, Bruce Springsteen, Sting, Tracy Chapman, Youssou N’Dour giravano il mondo a cantare per i diritti umani, e in ogni Paese erano introdotti da un artista del posto. Peter Gabriel mi conosceva e fece il mio nome. Avrei anche duettato con lui. Accettai per vanità e per spirito di soccorso: la biglietteria era ferma. Mi contestarono in 5 o 600, in uno stadio da 60 mila; ma bastarono a coprirmi di fischi. Ci rimasi malissimo, per qualche mese ne soffrii. Era il mio primo importante impegno sociale».
Con Morandi avete fatto una tournée, Capitani coraggiosi.
«Una bella accoppiata. Lui era il pupo e io il secchione. Morandi è un ragazzo ingestibile e un magnifico interprete. A volte spariva per fare le foto dei social e tutti a cercarlo per finire le prove».
Crede ancora in Dio, come quando da ragazzo voleva farsi prete?
«Sì. Dopo anni di dubbi e domande, oggi, di nuovo, credo che Dio esista».
E come immagina l’aldilà?
«Posso dirle come lo desidero: un luogo dove ritrovare le persone care, e anche i miei cani. I pastori tedeschi, i cinque maltesi, e pure quegli animali che nascondevamo sul treno, cantando per coprire i loro versi».