il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2024
Memoriale Mussolini:“il mio addio al Re”
Nel 1946 Indro Montanelli pubblica “Il buonuomo Mussolini”, un testo satirico in cui finge di aver avuto da un prete il testamento di Benito Mussolini. Ora la Rogas lo ripubblica. Ecco uno stralcio sul Gran Consiglio del 25 luglio 1943 che destituì il duce e sull’incontro col re che lo fece arrestare.
Tengo qui a dichiarare formalmente che io non ho mai dubitato della lealtà dei miei collaboratori; e anche quando li vidi accanirsi contro la mia finta resistenza, la famosa notte del Gran Consiglio, ero sicuro che, una volta loro prigioniero, ne avrei ricevuto un trattamento più che umano, generoso e intonato a rispetto e reverenza.
Essi non mi hanno mai odiato e mai io li ho considerati traditori.
Fui io che suggerii a Scorza l’idea di riunire il Gran Consiglio; fui io che quando Grandi venne a mostrarmene l’ordine del giorno, il quale significava formale invito a dimettermi, finsi di gettarvi sopra soltanto uno sguardo distratto, come a cosa di nessuna importanza, e ne accettai la discussione. Questo è uno dei punti che più hanno incuriosito gli storici di quel periodo: sembra a essi inverosimile che un uomo sospettoso e vigilante come Mussolini abbia accettato quel cimento senza prendere nessuna misura precauzionale e in evidenti condizioni d’inferiorità. Ma fui io a volerlo nella speranza che il Gran Consiglio prevenisse l’iniziativa del Sovrano e del Suo Stato Maggiore e mettesse con ciò implicitamente un’ipoteca sulla successione. Che sarebbe avvenuto se i membri di quel supremo consesso avessero messo il Re dinanzi al fatto compiuto? Non avrebbero essi con ciò vincolato Sua Maestà a preferirli ai Suoi Generali? Questa era la speranza che mi mosse. Mi pareva che l’Italia sarebbe stata meglio affidata nelle mani dei miei giovani ministri. Purtroppo fu una speranza delusa e, visto come sono andate le cose, credo che ciò abbia costituito un grosso pregiudizio per la nostra causa: la quale era la disfatta, sì, una disfatta italiana, cioè intelligente, approssimativa e passibile, con abile manovra, di risolversi in vittoria.
Ah, se questa manovra avessi potuto condurla io stesso! Quanta maggior fiducia avrei saputo ispirare a Churchill, a Roosevelt, a Eisenhower! A Genova, non a Salerno, li avrei fatti sbarcare e l’ingresso dell’Italia nel campo delle Grandi Democrazie sarebbe stato sottolineato da una orchestra oratoria ben altrimenti sonora e persuasiva.
“Eccomi, Maestà!” dissi allegramente quella domenica sera 26 luglio presentandomi al Re nel Suo studio di Villa Savoia. Ma il Sovrano ricambiò la mia allegria con uno sguardo carico di preoccupazione. “A che giuoco giuochiamo, Presidente?” mi disse subito senza tante cerimonie. “E cos’è questa storia del Gran Consiglio? Non era nei miei piani, né nei miei desideri, che quel supremo organo s’intromettesse nella questione, né posso credere ch’esso lo abbia fatto spontaneamente. Conosco troppo bene il mio primo ministro e so che si può catturarlo di sorpresa, quando esce, poniamo, da casa mia, ma non si può metterlo in minoranza e rovesciarlo in una normale seduta e discussione”. “Lei s’inganna, Maestà” risposi (ed era la prima bugia che dicevo al mio Sovrano, dopo tanti anni). “Si ricordi che i Luogotenenti sono fedeli al Capitano che vince, non a quello che perde. E io ho perso. I miei uomini hanno subodorato qualcosa e dinanzi all’ineluttabilità della mia caduta non avevano che due vie: darmi una mano per restar su o darla a chi voleva buttarmi giù. Hanno scelto saggiamente la seconda. Non è stato un eroismo; ma è stato pur sempre un gesto di coraggio: sono contento che l’unico gesto di coraggio contro il fascismo, sia pure contro un fascismo agonizzante, sia stato compiuto, fra 45 milioni di antifascisti, da una dozzina di fascisti”. “Sì, ma cosa significa tutto questo? Significa forse che io sarei obbligato, ora, a rimettere il potere nelle mani di chi, per via costituzionale, glielo tolse?”. “Così vorrebbero la logica e il costume” risposi con un filo di speranza. “Non posso, non posso, non posso” disse il Re con accento di disperazione. E mi mostrò il proclama già steso da Orlando e firmato da Badoglio.
Capii che non c’era più nulla da fare e non insistei. Nient’altro mi restava che porgere al Sovrano l’aiuto della mia più matura esperienza e lasciargli le ultime raccomandazioni.
Lessi il proclama e confesso che non trovai nulla da ridirci. Anche la frase “la guerra continua” mi parve perfettamente appropriata. Approvai il piano steso dal Re con i suoi nuovi collaboratori: esso partiva dalla constatazione che le nostre forze erano inadeguate a parare la minaccia di una occupazione tedesca. Soli avrebbero potuto salvarci da tanta jattura gli Alleati. Ma questi ultimi potevano anche non essere pronti all’intervento e quindi bisognava dar loro tempo di ultimare la preparazione e far scegliere a essi il momento dello sganciamento. Nient’altro restava da fare per giungere incolumi a quel giorno che fingere di continuare la guerra.
Dissi al Re che non potevo muovere nessuna critica a tale operato e il Sovrano parve molto sollevato dalle mie parole. Poi ci fu un lungo silenzio, e il Re era molto pallido. Infine mi fornì tutti i particolari del mio prossimo arresto.
“Dunque ci lasciamo, Maestà” dissi io sorridendo. Il Re mi prese una mano. “Caro Mussolini” mi disse, “è Lei che lo ha voluto”.
“No, non sono io” risposi, “è l’Italia, questa strana Italia che non sa essere grande che nella sventura. Lei ed io, Maestà, ve l’abbiamo accompagnata. Ora la mia parte è finita, la Sua durerà ancora qualche mese. Mi dispiace di non poter restare al Suo fianco in questo epilogo che si annunzia particolarmente irto di difficoltà e di pericoli, ma Lei sa che non è possibile”. “Lo so” rispose il Re “lo so. Non gliene faccio una colpa”.
Di nuovo ci fu un lungo silenzio, poi il Re chiese: “Quando venne Lei, qui, la prima volta?”. “Il 30 ottobre del ’22, Maestà”.
“Ci venne in marsina e io La ricevetti in divisa” disse il Re. “Debbo confessarle una cosa: sa che Lei mi faceva paura, allora? Per tanto tempo ho avuto un complesso d’inferiorità, io così piccolo e debole, dinanzi a Lei così forte e risoluto”.
“E dire, Maestà” risposi, “che ho avuto la stessa paura e l’identico complesso io, nel sentirmi così cafone davanti a Lei così regale”.
“Davvero?” disse il Re.
“Davvero”.
“Abbiamo lavorato insieme per tanti begli anni e l’Italia li rimpiangerà”.
“L’Italia rimpiange sempre qualcosa, Maestà”.
“Be’” disse il Re, “ora dovrei ringraziarla di tante cose, ma mi permetta di astenermi. Mi ero provato a scriverle una lettera per vedere se riuscivo meglio, da solo, a dominare la mia commozione, ma non ci sono riuscito. Io passo per un uomo molto arido e freddo: è una fama che si addice ai Re e bisogna che me la conservi. Lei mi capirà ugualmente”.
“Maestà” dissi, “io Le auguro che tutti gl’italiani La capiscano domani come io La capisco oggi”.
“Oh, non lo spero” disse Lui.
“Maestà” continuai, “abbiamo compiuto insieme una grande opera e a essa ci siamo sacrificati. Che ce lo riconoscano o che non ce lo riconoscano, che importa? Questo pensiero mi conforterà nei difficili giorni che mi attendono. Conforti anche Lei”.
Il Re non disse nulla e aprì la porta.
Ambedue recitammo bene l’ultima scena: quella della stretta di mano finale dinanzi all’autoambulanza dei carabinieri. Udii benissimo le parole della Sovrana mentre salivo sulla macchina: “Arrestarlo proprio sulla soglia di casa nostra! Non è un gesto da Re”. Il gesto non era forse da Re, ma quelle parole erano da Regina. Quella figlia di pastori sapeva cos’è la regalità.