la Repubblica, 8 maggio 2024
Fine della guerra
Si apre venerdì 10 maggio al Palazzo Ducale di Genova, con l’inaugurazione della mostra cartografica curata da Laura Canali, l’undicesimo festival di Limes. Vi partecipano esperti e protagonisti italiani, americani, cinesi, israeliani, iraniani, svedesi, nigerini, francesi, tedeschi, polacchi. Ambizioso il titolo: “Fine della guerra”.
L’abolizione dell’articolo determinativo è voluta. Qui ci interessano sia il che la fine della guerra. L’assenza del primo esclude la pace. Per farla dobbiamo sapere perché combattiamo e per quali scopi ci affrontano i nostri avversari. La geopolitica serve a questo. Obbliga a contemplare il conflitto dall’alto (prospettiva arbitrale) e di qui calarsi per gradi e scale crescenti sul terreno disputato (sguardo conflittuale), misurando posta in gioco – oggetto del desiderio – intenzioni e risorse dei protagonisti. L’esercizio geopolitico educa al limite. Frena le pulsioni dei contendenti mentre li include nella stessa equazione, in ossequio al principio di realtà. Prepara alla pace.
L’Italia è campione mondiale di beata incoscienza. Basta uno sguardo alle guerre e ai terremoti geopolitici che ci avvolgono per accorgersene. Siamo all’incrocio delle dinamiche di crisi Est-Ovest, esplose nel conflitto ucraino, e Nord-Sud, frontiera fra Ordolandia e Caoslandia. Qui le potenze si danno convegno in vista di una prova di forza anticipata dallo scontro Israele-Iran combattuto a Gaza, con contorno di focolai accesi dal Caucaso alla Siria e al Mar Rosso. Lo scenario per noi esiziale dell’intransitabilità degli stretti che ci connettono agli oceani, a cominciare dalla rotta Suez-Bab al-Mandab, era ieri caso di scuola oggi cronaca.
Demografia: gli italiani diminuiscono a ritmo impressionante, perché facciamo meno figli e gli immigrati non compensano il declino, aggravato dall’emigrazione di giovani in cerca di un ambiente che ne riconosca i meriti. Tutto nel contesto di una transizione demografica. L’età mediana (47 anni, in crescita) mette a rischio previdenza e welfare, mina la coesione sociale.
Cultura: tre fortunate generazioni di pace sono cresciute nella certezza di non essere minacciate da nessuno, quindi esentate dalla difesa del Paese. Ne derivano introversione e ignoranza strategica. La generazione Z si specchia negli smartphone. Il suo mondo reale è il virtuale. La collettività non esiste.
Contesto strategico: la regressione dell’impero americano verso casa mette in questione la disponibilità del Numero Uno a surrogare i limiti difensivi nostrani. La favoletta dell’articolo 5 Nato, dove ognuno legge quel che vuole, è recitazione di maniera. Non esistono alternative allo scudo americano.
Ci consoliamo con l’idea che nessuno abbia voglia di colpirci. Errore grave: siamo già sotto tiro, sia pure non al grado bellico diretto (salvo droni houti nel Mar Rosso). L’Italia è preda golosa inadatta a difendersi. Restiamo uno dei Paesi più ricchi e attraenti al mondo, con aziende, infrastrutture e tecnologie appetibili. I predatori cinesi, russi ma anche atlantici si servono con destrezza nel tesoro italiano, piluccando nel nostro colabrodo.
Eppoi il vantaggio/pericolo della geografia: il molo centrale del Medioceano – privilegio di calibro mondiale – resta magnetico per qualsiasi potenza straniera. La robusta presenza militare americana, con basi essenziali per combattere nell’Euromediterraneo e depositi di bombe atomiche che ci rendono potenza nucleare passiva (cioè bersaglio), ne è testimone.
Siamo certi che se un giorno Washington fosse costretta ad abbandonarci non saremo ridotti a ospitarvi eserciti ostili? Magari accogliendoli con fiori e canti di gioia?
Su tali premesse, una cura bellicista della nostra insicurezza pare tragicomica. Ammesso di disporre dei soldi, del consenso popolare e della volontà politica che non abbiamo, ci vorrebbero decenni per allestire Forze armate capaci di respingere eventuali aggressori. Quel che urge è rendere il nostro strumento militare in grado di fare la sua parte in coalizione. Obiettivo non impossibile, purché noi lo si voglia e i partner pure. Due enormi punti interrogativi.
Rimettiamo i piedi per terra. Non siamo fatti per la guerra. Siamo obbligati a lavorare per la pace. Senza aspettarci che altri lo facciano per noi. Proponiamo un principio strategico e una derivata tattica cui attenerci.
Il primo è riscoprire la diplomazia, sommersa dal frastuono delle propagande e dei cannoni, il che presuppone un soprassalto di responsabilità politica e culturale: ragionare insieme per evitare il peggio, come fu durante la Prima Repubblica. Il principio per cui la politica estera si fonda su un grado di concordia nazionale dovrebbe tornare premessa e scopo dello Stato.
La seconda è tattica geopolitico-militare. Non si deve fare la guerra se non per uno scopo definito. È il solo modo per poterla finire. Se decidessimo di orientare le nostre missioni militari sul principio che non si va in giro per il mondo per dimostrarci fedeli agli alleati veri o presunti, ma solo a protezione di interessi irrinunciabili, coinvolgendo ogni possibile partner, avremmo fatto un passo avanti verso la responsabilizzazione della democrazia italiana.