il Giornale, 7 maggio 2024
Fare affari nel mercato dell’arte
I n un libro uscito da poco per i tipi di Allemandi, Il mercato dell’arte: le regole del gioco, l’autore, Simone Facchinetti, docente universitario e raffinato connoisseur d’arte antica, fa questo gioco istruttivo: ricorda che nel maggio del 2019 un multiplo di Jeff Koons è stato venduto all’asta, da Christie’s New York, per la bellezza di 91 milioni di dollari, e poi ipotizza quale ricca collezione di vecchi maestri si potrebbe mettere assieme con la stessa cifra. Jeff Koons è l’artista americano super kitsch noto per il matrimonio burrascoso con Ilona Staller, per la statua in ceramica dorata di Michael Jackson con scimmietta, e per i suoi iconici animali in metallo, che ricordano quelli fatti dagli artisti di strada con i palloncini. Uno di questi, Rabbit, realizzato in 3 esemplari nel 1986, è proprio quello del record di Christie’s. Ebbene, la collezione di old masters acquistabile con la stessa cifra comprenderebbe invece opere di Raffaello, Michelangelo, Guido Reni, Guercino, Artemisia Gentileschi, Rubens, e molti altri grandissimi nomi, grazie a un calcolo basato su opere, tutte sotto i cinque milioni, battute o rimaste invendute in aste recenti. È l’enigma del prezzo delle opere d’arte. Perché artisti consolidati, leggendari, cardini della storia dell’arte, vanno in asta a dieci o cento volte meno di una scultura bruttina, per di più multipla, firmata da un vivente, che se la fa realizzare su progetto dai tecnici del suo studio? E a questa si aggiunge l’altra domanda: siamo sicuri che il coniglio da 91 milioni varrà ancora così tanto tra cinque, dieci, cinquant’anni?
Una risposta alla prima domanda la si trova scorrendo un classico sull’arte contemporanea, Lo squalo da 12 milioni di dollari (il riferimento è a una celebre opera di Damien Hirst), dove si dimostra che è una questione di brand. Cioè, in estrema sintesi, se una delle due massime case d’asta (Christie’s e Sotheby’s), e collezionisti di gran fama e influenza (per esempio Charles Saatchi), e galleristi-corazzata (diciamo Gagosian), che sono dei brand-garanzia, decidono di puntare su un artista contemporaneo, questo diventerà brand lui stesso, e acquistarlo a cifre-monstre sarà un segnale di ricchezza e potere ben superiore a quello, per dire, di possedere un paio di Ferrari o un attico a New York. E per inciso non è dato sapere chi siano i compratori che in asta prendono i Koons, gli Hirst, i Warhol, i Rothko a clamorosi prezzi record. Sceicchi? Oligarchi russi? Tecno-miliardari americani? Anche la discrezione e il mistero fanno parte del gioco, così che risalti di più l’aura del potere. Ma dicevamo: e se tra cinque o dieci anni volessero
rivenderli, strapperebbero la stessa cifra? È legittimo avere più di qualche dubbio. Per esempio, se andiamo a cercare le aggiudicazioni top price proprio di Koons, dopo il record del 2019 troviamo il multiplo in bronzo Aqualung a 11 milioni di euro (2021, Sotheby’s), un Balloon monkey a 10 milioni (2022, Christie’s), e un Sacred Heart passato di mano a quasi 6 milioni, nel 2023 (Christie’s). Certo, sempre prezzi milionari, ma nessun nuovo record, e nemmeno niente che si avvicini ai favolosi 91 milioni. Ma è così, l’errore di valutazione nel collezionismo è sempre dietro l’angolo, e pure in senso contrario. Pensate a Marvin Skyler: americano, piccolo collezionista, nel 1969 aveva acquistato in galleria una Brillo Box di Andy Warhol a mille dollari. Un paio d’anni dopo l’aveva scambiata, e pare per un quadro di Peter Ford Young, artista tra l’astratto e lo psichedelico che allora era di gran moda. Ebbene, il Warhol, esattamente lo stesso scambiato da Skyler, nel 2010 è andato in asta da Christie’s per 3 milioni di dollari, mentre le opere storiche di P.F. Young non hanno mai superato i 15mila. La figlia di Skyler, forse nel tentativo di metabolizzare, nel 2016 sulla vicenda ci ha pure girato un film.
E quindi come si fa? Se vogliamo mettere insieme una collezione, cosa dobbiamo comprare, quanto è giusto pagarlo, insomma come ci possiamo orientare? Ci sono figure eccellenti da prendere come esempio. Una è Giuseppe Panza, collezionista milanese che tra gli anni 50 e il 2010 ha raccolto pezzi di valore inestimabile: Rothko, Kline, Fautrier, Tàpies, Rauschenberg Panza è lo stesso di Villa Litta, a Biumo, sopra Varese, ora donata al FAI, dove si può ancora ammirare una piccolissima ma favolosa parte della sua collezione. Il cui nucleo storico, oggi dal valore di centinaia di milioni di euro, è stato in parte donato e in parte acquistato da istituzioni come il MOCA di Los Angeles e il Guggenheim di New York. Ebbene, Panza aveva cominciato a collezionare attraverso una galleria di fiducia, la Apollinaire di Guido Le Noci a Milano, poi aveva conosciuto il giovane Pierre Restany critico e guru del Nouveau Realisme francese e poi il gallerista principe della pop-art, Leo Castelli, a New York, e aveva viaggiato, visitando mostre e musei in Europa e Stati Uniti. Dunque ha avuto delle guide, dei suggeritori. Ma allo stesso tempo ha sempre seguito il proprio gusto e il proprio occhio, comprando sempre e solo a prezzi accessibili artisti in crescita, qualche anno prima che diventassero star inavvicinabili. Giuseppe Panza non era un magnate, ma un imprenditore con buone possibilità economiche. Spendeva, per un singolo quadro, cifre paragonabili a qualche mese di stipendio di un operaio. E chi non ha questa potenza di fuoco? È esattamente il caso dei coniugi Vogel. Semplici
impiegati nel pubblico, a partire dagli anni sessanta hanno accumulato una collezione straordinaria di migliaia di opere, ora musealizzata, studiando la scena newyorkese, visitando gli studi degli artisti, comprando direttamente da loro. La regola dei Vogel era: niente vacanze, niente ristoranti, ogni risparmio convertito in opere d’arte, limitandosi a opere di dimensioni contenute, cioè niente che non si potesse portare a casa in taxi. Perché risparmiavano anche sull’auto.
Va bene, ma se senza sapere nulla volessimo cominciare a collezionare subito, da domani? Dipende dallo scopo. Se è quello di investire, conviene affidarsi a un esperto, un art advisor, un curatore di collezioni, qualcuno che ci guidi e consigli grazie a una sensibilità e una visione dall’interno del mercato. In questo momento potrebbe consigliarvi per esempio Luigi Ontani, che ha ottant’anni, è nei musei di tutto il mondo, ha avuto un riscontro critico solidissimo, e dunque è nella storia, ma di cui esistono opere, appunto storiche, ancora avvicinabili (qualche decina di migliaia di euro in asta). Oppure Iva Lulashi, che invece ha solo 36 anni, è portata in palmo di mano dalla critica contemporanea, ha avuto una serie di personali folgoranti e ora è alla Biennale di Venezia, dove le hanno dedicato il padiglione albanese. Con un po’ di fortuna, in galleria qualche sua opera (piccola), sotto i 10mila euro ancora si trova. E poi chi lo sa, il mercato dell’arte è agitato da scosse imprevedibili: chi l’avrebbe detto, nel 2015, quando un suo 40x50 veniva venduto a fatica in asta intorno ai 5000 euro, che Salvo, il fenomeno del momento, fosse oggi disputato, per le stesse dimensioni, intorno ai 50mila? E che per le opere grandi ormai si avvicini al milione?
Ma c’è anche l’altra scelta: comprare arte contemporanea emergente per soddisfare il proprio gusto estetico, facendo sui giovani artisti una scommessa che potremmo facilmente perdere. In questo caso si girano gli studi, le collettive, le personali delle gallerie di ricerca, si legge la critica militante (preziose, per esempio, le studio visit che cura la Quadriennale di Roma), e si compra spendendo dai cinquecento euro ai due-tremila. Ci si diverte e si appende in casa qualcosa di bello, con la consapevolezza di aver compiuto un piccolo atto di mecenatismo a sostegno dei giovani artisti. Se diventeremo dei Panza, dei Vogel, o dei signor nessuno, lo scopriremo solo tra vent’anni.