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 2024  maggio 07 Martedì calendario

Intervista a Stefania Andreoli

Dottoressa Andreoli, perché un libro sull’amore?
«Perché negli ultimi anni mi sono sentita rivolgere centinaia di volte questa domanda dai miei pazienti, perlopiù molto giovani: “Ma come faccio a riconoscere se quello che provo è amore o no?”».
E Stefania Andreoli è una psicoterapeuta che non riceve in un solo studio: ha quello «fisico», dove esercita da anni come psicologa e analista, ma ha anche quello radiofonico e televisivo (collabora a RadioDeejay e va spesso in tv) e non ultimo quello social, perché solo su Instagram è seguita da 376 mila persone. Allora si spiega la nascita del suo ultimo saggio, Io, te, l’amore. Vivere le relazioni nell’era del narcisismo, Rizzoli. Si parla di sentimenti e, inevitabilmente vista la formazione della specialista (autrice del best seller Perfetti o felici), di genitori e figli. Un libro che, premette lei, è un libro impossibile.
Perché?
«Perché se da psicoterapeuta dovessi definire il concetto di amore dovrei contraddire buona parte dei luoghi comuni così diffusi oggi: l’amore non è levigato, perfetto e romantico. L’amore ha anche una componente tossica, ha anche una parte oscura, l’amore può fare male e proprio per questo ci trasforma. Il punto è che dobbiamo farci trasformare e insegnare ai figli come farlo, con consapevolezza e maturità. In una frase: accollarci il rischio».
Peccato che, come lei dice sin dall’inizio, sia i ragazzi che le famiglie oggi accantonino il rischio, evitano ogni asperità.
«È così. Premessa: non giudico nessuno, perché ciascuno è padre, madre, figlio o figlia a sé. Però, da analista, osservo: oggi la famiglia consegna ai figli una eredità emotiva vischiosa, che imprigiona più che liberare e non insegna ad amare l’altro, ma solo quello che è famiglia. Non invoglia ad andarsene e, quindi, a prendersi il rischio di amare. Per dirla in breve: la nostra generazione era “voluta bene” dai genitori, oggi i figli sono “amati”».
C’è una differenza sottile.
«Sottile ma centrale. I nostri genitori ci volevano bene, ci trasmettevano – in modi diversi – un insieme di norme per saper vivere, ma poi eravamo liberi di ribellarci all’autorità paterna e andare a cercare l’amore da un’altra parte. Oggi no, perché la famiglia narcisista inscena una narrazione, anche sui social, in cui tutto nasce cresce e muore in questo nido, in cui tutto deve andare bene, tutto si deve risolvere lì dentro. Non c’è spazio per le ribellioni e nemmeno per le tragedie. Ma l’amore nasce da questo allontanamento dalla famiglia di origine, ce lo insegnano da secoli la letteratura e l’arte».
È come se i genitori asfissianti investissero i figli di un mandato, o di un obbligo di fedeltà?
Infatuazioni
Mi sento rivolgere sempre la domanda:
«Come faccio a riconoscere se sono innamorato?»
Nei giovani c’è molta confusione,
li vedo passare da un’infatuazione all’altra
«Sì, questa narrazione fatta di continue dichiarazioni d’amore, di vezzeggiativi, di tentativi esibiti di rendere i figli felici, di continue intromissioni nella loro vita, alla fine inchioda i ragazzi alla legge non scritta di dover restituire qualcosa, dato quanto si è ricevuto. Li incolla all’essere figli e niente più. E dunque li si priva dell’istinto di scappare verso qualcosa d’altro. Quel qualcosa che noi più vecchi abbiamo chiamato “amore” e che loro oggi non sanno definire, perché non conoscono il bisogno dell’altro»
Da qui la domanda «come faccio a sapere se sono innamorato?»
«Una domanda legittima, perché nei ragazzi c’è molta confusione. Li vedo passare da un’infatuazione all’altra, incerti anche sull’identità che li abita. E come potrebbe essere altrimenti? Non sono spinti al completamento di sé stessi, ma a restare ben saldi sul piedistallo della famiglia, perché il vero privilegio è quello».
Peraltro, in una società che non ci vuole vivi ma performanti, tutto questo ha conseguenze anche nel lavoro e nelle altre scelte.
«Anche nel sesso, se vogliamo. Tra i miei pazienti, quelli che lo fanno sono i genitori, mentre i ragazzi hanno rinunciato. Badi bene, dico “rinunciato” e non “scelto”, perché esasperati dall’interesse dei genitori anche in quel campo. C’è un paradosso: a noi di un’altra generazione, mamma e papà raccomandavano di non farlo, spingendoci quindi a desiderare di fare l’amore. Oggi tanti genitori si preoccupano che i figli “funzionino” bene a letto».
Che «performino», quindi?
«Sì, che anche in quella situazione siano dei figli perfetti. La normale reazione di un ragazzo o di una ragazza allora è quella di lasciar perdere. Non possono rischiare una condanna all’inadeguatezza. Questa cosa che i ragazzi non fanno sesso, secondo me, è preoccupante. Perché l’esperienza erotica è formativa, importante quanto il dolore. E se loro evitano sia il sesso che il dolore, qualche domanda dovremmo farcela».
In definitiva, noi adulti dovremmo essere più coraggiosi e lasciarli andare?
«Direi più disturbanti. Meno accomodanti, meno inclini all’omologazione. Incoraggiamo la differenza, avviamoli verso l’altro, senza paura».