La Stampa, 7 maggio 2024
Bigmama si racconta in un libro
Da Cento occhi di BigMama
Mio fratello ascoltava rap, metteva sempre a tutto volume un pezzo di Salmo, Death USB che ti trapanava il cervello. Io preferivo il pop e non sopportavo quella roba, litigavamo spesso per i nostri gusti musicali, soprattutto quando comprò l’album Midnite, che metteva a palla nello stereo tutti i giorni. Un giorno mamma mi disse: «Tuo fratello vuole andare a un concerto ma io da solo non ce lo voglio mandare, quindi tu vai con lui, lo controlli e io ti faccio un bel regalo, d’accordo?».Così andai per la prima volta a sentire Salmo con Giandomenico. Il concerto era a Giffoni per il Film Festival, c’erano Salmo, Ensi e Clementino.Fu uno show incredibile, un’iniziazione. Quando tornai a casa non ero più la stessa, come Cenerentola da sfigata a illuminata è stato un attimo. Aveva cominciato Ensi a rappare, facendo freestyle sugli oggetti che gli lanciavano sul palco. Clementino lo conoscevo ed era già di culto per tutti. Ma quando arrivò Salmo fu un colpo di fulmine. Per me non era umano, piuttosto l’incarnazione della ribellione, della libera tracotanza. Vidi materializzarsi davanti ai miei occhi la soluzione a tutti i miei problemi. Il giorno dopo presi il telefono e per ore riguardai in loop i video che avevo fatto di Salmo e piansi. Mi mancava come se lo conoscessi da anni. Mi ricordo che guardavo in continuazione il video dell’esibizione di Old Boy, mi trapanava il cervello. Era luglio 2013, avevo tredici anni, e avevo appena scoperto il valore del rap.Ho capito che a differenza del pop, in cui si parlava di amore, con il rap potevi lamentarti, arrabbiarti, ribellarti, denunciare. Salmo era incazzato, stanco, un giovane vecchio, non si lasciava piegare dalla società, a come lo descrivevano, a come lo volevano. Lui era Salmo e basta. Il fatto di potersi sfogare con la musica è stata un’illuminazione per me. Ho capito così di poter parlare del mio disagio all’interno delle canzoni.Quel giorno mi dissi: «Adesso basta». Aprii YouTube, scaricai un beat e cominciai a scriverci sopra. Un pezzo che parlava di una ragazza grassa, autolesionista, che non aveva amici e non riusciva a trovare l’amore, che voleva scomparire, e che alla fine del pezzo si ammazza. Era tutto quello che provavo io in quel momento.La canzone era Charlotte, la prima strofa e metà della seconda le scrissi allora, a tredici anni.Mi resi conto che scrivere mi aveva aiutato, che era scattato qualcosa dentro di me, una forza che non sapevo di avere. Era stato terapeutico, non ho più smesso di farlo e ogni volta calcavo con la penna come se l’ansia e la rabbia uscissero da lì.Il pezzo l’ho registrato due anni dopo, al mio compleanno chiesi dei soldi per comprarmi un microfono da diciotto euro, e una scheda audio usb. Lo tenni nel telefono per tanto tempo e quando mi sentivo giù l’ascoltavo.Era davvero cominciata la mia rivalsa.Un giorno mi ero messa Charlotte in cuffia, come facevo ogni volta che mi sentivo triste, e un’amica mi chiese: «Cosa stai ascoltando?». Gliela feci sentire e rimase a bocca aperta quando le confessai che l’avevo scritta io. «Dobbiamo assolutamente farla conoscere a tutti», mi disse.Ci spostammo in un vicolo di Avellino, raggiungendo il nostro gruppo di amici che si mise ad ascoltare la mia canzone. Una ragazza mi disse: «Ho un amico rapper, deve conoscerti per forza». Ironia della sorte, pochi minuti dopo il suo amico si materializzò lì. Era T-Rabbia, un rapper campano della old school: non l’ultimo arrivato, ma uno che aveva vinto diversi contest e gare di freestyle. Impazzì per il mio pezzo, corse a prendere uno stereo e lo pompò per la città, e incominciò a farlo girare tra i vari gruppi WhatsApp.Qualche giorno dopo una ragazza mi fermò per strada: «Ma tu sei BigMama?». Mi chiese dove avessi pubblicato il mio pezzo, che lo cercava da giorni dopo averlo ascoltato dal telefono di qualcuno ma che non era riuscita a trovarlo. Le dissi che non lo avevo pubblicato, che provavo vergogna.«Ti posso abbracciare?» mi chiese. Mi strinse forte e scoppiò a piangere. «Non ho mai conosciuto una persona che mi abbia capita così tanto come mi hai capita tu», mi disse. «Per favore, fallo per me, pubblicala». Da quel momento nella mia testa è cambiato tutto.Avevo finalmente compreso che a qualcuno interessavano le mie parole, che avevo qualcosa da dire e che potevo aiutare le altre persone oltre me stessa a sentirsi meno sole.Il primo settembre 2016 Charlotte uscì su YouTube, e in una sola settimana ottenne cinquemila streaming. Un trionfo. Promisi a me stessa che non sarei mai più stata zitta. Se prima mi nascondevo nei parchi o nei vicoli con le amiche per non farmi vedere perché ero convinta di avere sempre gli occhi addosso, che tutti ridessero al mio passaggio e mi urlassero contro, da quel momento uscii allo scoperto a testa alta pensando che la gente da allora in poi mi avrebbe guardata non perché ero grassa ma perché ero BigMama, quella che aveva scritto Charlotte.BigMama era finalmente nata. Marianna non avrebbe più avuto niente da temere, BigMama si sarebbe presa cura di lei prima di tutto. L’avrebbe riportata al primo posto, dove meritava di stare. È lì che lo sguardo perso di Marianna si è trasformato in quello duro di BigMama. Uno scudo, un’arma.Credere nei propri sogni salva.