La Stampa, 7 maggio 2024
Sulle autobiografie
L’autobiografia è un genere letterario a sé o una forma di intercettazione obliqua e camaleontica? Negli ultimi anni, le domande sembrano esaurirsi sul piano della scelta formale e su quello dell’aderenza alla verità, ma dai libri autobiografici degli anni Duemila emerge soprattutto la rinuncia a passate pretese esaustive, insieme a una continua e provvisoria ridiscussione dell’esperienza. Da Annie Ernaux a Karl Ove Knausgård a Emanuel Carrère, l’autobiografia non è più l’anomalia nella produzione degli scrittori, come in gran parte poteva accadere fino al secolo scorso: semmai, è l’invenzione a essere la scelta sbieca e originale, mentre la prassi è il ritorno al vissuto, magari con risultati più o meno felici, sempre diseguali.Nel Novecento, un’autrice in anticipo sui tempi come Goliarda Sapienza scriveva dentro questo flusso, in un autoaggiornamento periodico della vita empirica e delle riflessioni che ne venivano, e oggi Einaudi pubblica questo ciclo in un volume di oltre settecento pagine, curato da Angelo Pellegrino, che si intitola Autobiografia delle contraddizioni, un progetto letterario sulla vita, l’arte, l’esperienza attraverso cinque romanzi che coprono un arco temporale piuttosto lungo: Lettera aperta, Il filo di mezzogiorno, Io, Jean Gabin, L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio. Si va dal libro con cui Sapienza fu proposta al premio Strega da Attilio Bertolucci e Natalia Ginzburg, alle parole postume pubblicate da Einaudi dopo la sua morte, attraverso cinque momenti della vita interiore, politica e letteraria di un’autrice complessa, coraggiosa e aliena, che apparteneva già al futuro. L’incipit di Lettera aperta è l’apertura di una strada di cui non si deve vedere la fine: «Non è per importunarvi con una nuova storia né per fare esercizio di calligrafia, come ho fatto anch’io per lungo tempo; né per bisogno di verità – non mi interessa affatto – che mi decido a parlarvi di quello che non avendo capito mi pesa da quarant’anni sulle spalle». L’autobiografia è una necessità dichiarata di sbrogliamento di questioni personali in pubblico luogo, tra monologo a teatro e seduta psicoanalitica, mentre la presenza di altri occhi sollecita la lingua a farsi più alta, più esatta: «Scusate ancora, ma ho bisogno di voi per essere in grado di sbarazzarmi di tutte le cose brutte che ci sono qui dentro. Parlando, dalla reazione di chi ascolta, puoi capire cosa va tenuto e cosa buttato. Ho bisogno di voi per liberarmi di tutte le cose inutili che affollano questa stanza. Ho la bocca piena della loro polvere». I lettori sono un incidente calcolato, l’esperienza un grumo, la scrittura un disinnesco. In una centralità ricorrente e ineludibile, torna negli anni la memoria di Maria Giudice, sindacalista, attivista, genitrice che con la sua statura fisica e morale sovrastava Goliarda: «Con mia madre ancora a tutto tondo, integra e disumana, ma rassicurante, col suo seno grande e la sua fronte alta e limpida senza una ruga e con il ritmo placato di quel treno che cantava dentro di me di libertà sconfinate (rotaie vibranti, sferzate dal vento di libeccio odoroso di ferro e di sale), protetta dal vestito di seta nera, fatto a uncinetto da lei…», scrive nel Filo di mezzogiorno, chiamato così da quel filo di luce in cui i morti escono dalla lava, mentre la luna e la vita si ricordano di essere sorellastre, l’una con gli stessi difetti dell’altra, e perciò in irrisolvibile conflitto. Come la luna e la vita, Maria e Goliarda devono essere raccontate insieme, nelle loro conflittuali diversità: di loro si sono occupate a lungo, e a fondo, studiose come Maria Rosa Cutrufelli e Serena Todesco, su di loro esistono studi, romanzi biografici, saggi accademici. Torniamo alla vita raccontata all’ombra di questa madre, dentro e fuori dal suo raggio: nel 1980 Goliarda viene arrestata per furto, L’università di Rebibbia è il racconto di quell’esperienza e della scoperta del carcere come luogo di sperimentazione affettiva, tra solidarietà e disperazione. Le certezze del dubbio aggiunge un segmento esperienziale, con il ritorno al mondo di fuori e lo sgomento di una libertà contraddittoria, non per forza amara. Il vissuto, però, non si esaurisce sul piano materiale: tutti noi siamo ciò che ci accade anche a un livello sottile o immaginifico, e, rispetto alla domanda di partenza sulla natura della scrittura autobiografica, il romanzo più interessante del ciclo è Io, Jean Gabin. Lì c’è una Goliarda che non è solo chi vive, ma anche chi sogna di essere. La Goliarda sfrontata e tosta che si identifica con l’icona anarchica del cinema francese, che confonde Catania con Algeri, che si muove in vie brulicanti di vita, di risposte, di nuove domande. La Goliarda che insiste nel dire “io” intendendo sempre un altro, e forse viceversa. —