La Stampa, 7 maggio 2024
Intervista a Luca Barbarossa
Luca Barbarossa ha il passo lungo e la voce calda dei raccontatori. Fosse autunno, ci sarebbe un camino a scoppiettare, una grande finestra con un bel panorama fuori, una scrivania vissuta, piena di fogli e libri e lì accanto una chitarra. Ma è maggio, sotto le sue parole si sente il rumore del mare, gli occhi guardano verso l’orizzonte mentre si sente passare un gabbiano. E Barbarossa sorride: «Noi abbiamo bisogno di credere alle storie. Io sono grato a chi le racconta, tutte: dai miti greci a quelle di oggi». Ha da poco dato alle stampe un lavoro che presenterà al Salone del libro, Cento storie per cento canzoni, in cui le canzoni sono un pretesto per parlare di un mondo, il suo: «È un libro di storie dentro la musica. Sono storie appassionanti e curiose».Perché le persone cercano costantemente nuove storie da farsi raccontare?«L’archetipo che c’è dietro una storia è sempre importante per chi legge o ascolta, anche se è inventato, perché ci corrisponde. È così da millenni, lo è per la storia di Edipo e per quella del Minotauro, di Amore e Psiche, per non parlare della Bibbia del Corano. Quando una storia è così potente da farti entrare dentro, non ti chiedi più se sia vera o pura fantasia. Le storie, come le canzoni, possono essere talmente belle che il fatto che possano non essere vere è marginale rispetto a quello che trasmettono».Nell’ultimo secolo sono state le canzoni a sostituire in parte il ruolo dei miti?«Il simbolismo che c’è dietro è lo stesso. Nella canzone come nel mito c’è in atto un processo di identificazione. Tutti noi, specialmente in età adolescenziale, abbiamo pensato: questa canzone sono io, questa canzone sembra scritta esattamente per me».Quali sono state le canzoni che per prime ha sentito esser scritte proprio per lei?«Io mi identificavo molto in certe canzoni dei cantautori italiani, ma anche in quelle dei grandi americani che cantavo facendo il musicista di strada in giro per l’Europa. Avevo sedici anni e i miei eroi erano Neil Young, Simon & Garfunkel, James Taylor e Bob Dylan. Facemmo un’autogestione al liceo e feci un guppo di studio sui testi di Dylan. In questi autori c’era il mio, il nostro modo di vedere il mondo. Quel fatto di restituire dignità e giustizia a persone che se l’erano vista negare era una sorta di risarcimento. Canzoni come Master of War e Blowin’ in The Wind erano la risposta alle guerre, alle ingiustizie e alla tracotanza del potere».Diciamo temi di non grande popolarità oggi. Di guerra c’è chi parla con leggerezza, alcuni persino con entusiasmo. Al governo alcuni sembrano avere nostalgia di un passato che per l’Italia è stato tragico.«Fino a quando non avremo una destra che si dichiarerà apertamente antifascista, tutto questo mi sembra abbastanza evidente».Lei è antifascista?«Non credo sia possibile essere italiani e non essere antifascisti. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e l’antifascismo, nata sulle ceneri del fascismo e grazie a chi il fascismo l’ha combattuto. Dopodiché si può serenamente essere di sinistra, di destra o di centro, ma l’antifascismo deve essere un valore di tutti».Eppure, anche in occasione di una festa che dovrebbe essere di tutti come quella della Liberazione, da destra sono partiti diversi distinguo.«Ogni anno ritorna questa tarantella in cui chi viene da una cultura di destra post fascista non vuole pronunciare la parola antifascismo perché ha paura di perdere parte dell’elettorato o per non tradire la sua storia. Eppure noi abbiamo avuto una sinistra che ha preso le distanze dai totalitarismi sovietici a suo tempo, anche se con grande ritardo. Ora serve una destra che prenda veramente le distanze dalla ferocia del fascismo e del nazismo».Anche quest’anno c’è stata la polemica su Bella Ciao, peraltro una delle canzoni di cui si parla nel suo libro.«Bella Ciao funziona perché è una canzone perfetta musicalmente, è un canone. Per questo è così popolare anche all’estero, anche tra chi non sa nulla di quello che dice. Invece di fare polemica, ci andrebbe intellettuale di destra per scrivere una canzone contraltare a Bella ciao. Come fece con la sua disarmante Qualcuno era comunista il grande Gaber. Dovrebbero fare una cosa tipo Qualcuno era fascista perché, anche dalla parte sbagliata avevano creduto in un sogno: quante persone sono morte in buona fede pensando alla patria, pensando di fare qualcosa di buono per tutti. Gaber lo scrisse benissimo per il sogno comunista, con le sue contraddizioni, le sue cose grottesche, per poi iniziare un elenco di cose vere e atroci. E ci fa capire perché uno si schiera da una parte».Perché è così raro trovare intellettuali che siano in grado di dire qualcosa di importante, che segni le nostre vite?«Perché l’intellettuale è libero, è uno che sa leggere il suo tempo e lo deve fare fuori dal dogma. Deve essere una spina nel fianco, deve essere altro. Una voce critica per tutti, anche per la sua parte, come Pasolini. Altrimenti sei un funzionario dei partiti».C’è stata, come dicono a destra, un’egemonia culturale della sinistra?«Mi pare che molti abbiano confuso l’egemonia con il talento. Se Fabio Fazio fa il programma più bello di tutti è perché ha talento, non perché è di sinistra. Punto. Dobbiamo fare pace con il talento. Flaiano diceva che gli italiani perdonano tutto, tranne il successo: ed è così».Alcuni autori straordinari, come Francesco De Gregori, ricevettero proprio da sinistra le contestazioni più feroci.«Sì, e nel caso di Francesco fu incredibile e doloroso. Ha scritto alcune delle cose più belle di sempre. Sulla tragedia del Titanic si capisce, profondamente, molto di più ascoltando le canzoni di quel suo album che guardando il film di James Cameron. L’abbigliamento di un fuochista, Titanic, I muscoli del capitano: quello è un album pazzesco, la narrazione di Francesco è pazzesca. Ma lui ha sritto anche Il cuoco di Salò perché è un artista enorme, un intellettuale libero. Francesco ha la capacità di guardare la storia da un altro punto di vista, spostando il fuoco, di riflettere sui personaggi marginali che guardano la grande storia. E lui con Titanic ha anticipato anche il tema della tracotanza dell’uomo che vuole domare la natura».Tutto questo lo scriveva già quaranta anni fa. Non stiamo restando troppo indietro sul futuro?«Il problema è esattamente questo. Ogni anno ci allontaniamo un po’ di più dai problemi reali che sono urgenti, importanti. Servono risposte concrete su ambiente, sanità, lavoro, scuola, ricerca, gestione del territorio. Si parla troppo di temi che dovrebbero esser risolti da tempo. Ci si concentra molto su appartenenze, storiche e politiche, e molto poco sulle vere urgenze».La musica e letteratura allontanano dai temi concreti perché portano a cullarsi nella fantasia?«No, non è così. Prendiamo ad esempio la canzone. Non è affatto legata alla fantasia, tutt’altro. La canzone è legata a quello che noi viviamo, ai nostri sentimenti, al nostro modo di sentire, è la descrizione di quello che sentiamo vivendo, è molto legata alla realtà. La verità è che la canzone è quasi tutto. Vita reale, impegno sociale, politica, e certo anche fantasia, qualsiasi cosa. Le canzoni parlano di noi. Pensiamo a una canzone come Incontro di Francesco Guccini: lì c’è tutto».A proposito di canzoni in cui c’è tutto, nel suo libro parla anche di “Roma (Non si discute, si ama)”, l’inno della Roma di Venditti. Lì c’è tutto?«Per me è appassionante più che struggente. La poetica delle canzoni mi ha sempre affascinato. È il più bell’inno di sempre, di una bellezza eclatante. C’è una sovrapposizione identitaria tra città e squadra: gialla come er sole, rossa come er core mio».Dopo anni difficili, come sta Roma?«Meglio, grazie. Il sindaco Gualtieri parla poco e si fa vedere poco, come peraltro dovrebbe essere. Girando per la città non si ha più il senso si disappunto provato negli ultimi anni. Roma spesso è stata abbandonata da chi avrebbe dovuto amministrarla. Certo, c’è ancora tanto da fare». —