La Stampa, 7 maggio 2024
Intervista a Corrado Augias
La casa di Corrado Augias è piena di libri e di luce. La sua gatta è nera ed elegante. Il suo rimpianto è la musica. Non averla studiata di più. Non aver suonato di più. Ne La vita s’impara, in uscita oggi per Einaudi, il giornalista e scrittore ripercorre la storia del nostro Paese attraverso la sua biografia. L’infanzia in Libia, la Liberazione in Italia, la non scelta tra ebraismo e cattolicesimo, gli Einaudi comprati a rate, i convegni del Mondo, le redazioni dell’Espresso e di Repubblica. La Rai, quello che rappresentava quando vinse il concorso ed entrò appena laureato. Quando tra i dirigenti c’erano Ettore Bernabei, Angelo Guglielmi, e ci lavoravano da Andrea Camilleri a Carlo Emilio Gadda.Lei scrive: «Ho frequentato la Rai per sessant’anni, ho assistito all’ingresso di tutte le ondate, dai socialisti ai berlusconiani, ai grillini. Tutti chiedevano posti e qualche briciola di potere. Gli ultimi arrivati invece non chiedono solo posti, il loro obiettivo è cambiare la narrazione culturale».«L’ho capito fin dall’inizio. Quando nel 1963 in Rai arrivarono i socialisti, interrompendo il monopolio democristiano, volevano qualche programma, qualche servizio nel tg, farsi vedere. Arrivare, come si diceva allora, nella stanza dei bottoni. Per poi scoprire che i bottoni non c’erano».Solo loro?«No, via via tutti gli altri. Quando arrivarono i comunisti la Rai venne parlamentarizzata, la Dc aveva l’uno, i socialisti il 2, i comunisti il 3. Anche Berlusconi, a parte qualche gesto di ferocia come l’editto bulgaro, un gesto di collera “divina”, non chiedeva tanto. I suoi pensavano alle ballerine. Questi no».A cosa pensano?«Sono arrivati per imporre una visione del mondo».Per riscrivere la storia come La Russa con via Rasella?«Per ricominciare daccapo con una contronarrazione rispetto a quella costituzionale. Ma è una narrazione rozza, infantile, approssimativa. Nata nelle conventicole del Movimento sociale, mentre stavano a rimuginare tra loro pieni di rancore e di frustrazione perché erano stati tenuti fuori».Li aveva messi fuori la storia.«C’era l’arco costituzionale che non li prevedeva, questo li ha riempiti di collera. Quando sono andato via dalla Rai non era ancora successo quasi nulla, ma ho visto i segni premonitori».È stato previdente.«Un gesto fanatico e stupido come il divieto del monologo di Scurati si spiega solo con lo zelo del funzionario che crede di aver capito che è arrivato il momento di poter fare una cosa del genere, perché il clima lo permette».E invece?«Si è sbagliato. È stata una mossa sciocca e controproducente».Lo sciopero Rai è stato boicottato da un sindacato appena nato per difendere il governo.«Un sindacato tecnicamente giallo, cioè il sindacato del padrone come c’era alla Fiat nei tempi delle contrapposizioni industriali più dure, alla Rai non c’era mai stato. È incredibile quel che accade».Cosa?«Nelle redazioni politiche si misurano le parole, una riga in più, un aggettivo più caldo».Ma non è sempre stato così? Lei racconta quando vinse la destra e Bernabei rimosse Fabiani dal Tg1.«Ma lui fece resistenza e riuscì a uscire creando una direzione centrale che non c’era, ai programmi culturali: esordì parlando di autunno caldo».Perché, come vi disse, «tutto è cultura».«Esatto. Le racconto un aneddoto significativo. Per un periodo ho fatto il redattore al tg, c’era stato un terremoto, scrissi la notizia parlando di vittime, case distrutte, strade impraticabili. Il mio caporedattore democristiano la riscrisse».Come?«"Tutto è tornato tranquillo a Valdobbiadene dopo la scossa di terremoto che..."».Non bisognava allarmare.«Gli interventi erano di questo tipo. Per non dire di Bernabei che quando c’era Tv7 si chiudeva nella moviola di via Teulada a guardare tutti i servizi: questo sì, questo no. Ma poi favoriva programmi culturali di prim’ordine»Era un’altra cosa?«Completamente, e si vede riprodotta nel dissidio tra Roberto Sergio e Giampaolo Rossi. Il primo, vecchia scuola dc, cerca di mitigare, di mediare. Rossi va giù dritto, è un uomo nato a Colle Oppio».Senso di rivalsa?«Quando sono andato via a una domanda su di me ha risposto, testuale: ho 12mila dipendenti, non mi posso occupare dello stipendio di Augias. Ma nessuno aveva mai parlato di soldi».Il tentativo di screditare, come con Scurati?«Il fango. Un argomento specioso per sporcare l’avversario».Nel caso di Scurati lo ha fatto direttamente la premier.«Vede, non ho paura che mi aspettino sotto casa per darmi un sacco di legnate... le botte dei fascisti le ho già prese».Quando?«Avevano garrotato in Spagna il comunista Grimau. Ci fu una grande manifestazione antifascista a Roma. Quando si sciolse il corteo, nel bar all’angolo tra piazza Barberini e via del Tritone, mi acchiapparono in quattro».Le diede anche lei?«Erano quattro! Ma due cazzottoni, roba da niente».Non teme le botte, ma teme?«Il modello Orban. Un restringimento dello spazio democratico progressivo, indolore, come la storia della rana bollita».Quali sono i segni?«Limiti alla magistratura, limiti ai poteri del presidente della Repubblica, una riforma che porta alla capocrazia. È lì che si arriva, nell’inavvertenza delle masse che hanno altri problemi, altre preoccupazioni. O se ne fregano».Era a New York alla fine degli anni ’60, quando nelle università c’erano proteste paragonate a quelle di oggi.«C’erano i flower children, quelli che giravano nudi con la capretta, la chitarra, storditi dal fumo. È incredibile come quella gioventù irenica sia poi diventata quella che protestava contro il Vietnam. E come quel vento abbia generato in Europa tante cose comprese quelle terribili: la Raf in Germania, le Br in Italia».I manifestanti di oggi hanno delle ragioni?«Per parecchi anni i giovani non hanno avuto un obiettivo, un ideale, un motto, una figura attorno alla quale concentrarsi. Non si può negare che la reazione improvvida di Netanyahu al massacro del 7 ottobre abbia creato questa situazione. Chi può resistere allo strazio delle immagini che arrivano da Gaza, con i disgraziati che scappano vestiti di stracci con l’asinello che porta un carretto con sopra le loro povere cose? Come fai a non dire Dio che orrore ma che abbiamo fatto?».E Hamas?«I macellai di Hamas sono riusciti nel loro intento: hanno alienato ad Israele le simpatie del mondo. Mi fanno ridere i nostri che dicono “ah Israele” quasi volendosi lavare la coscienza dalle leggi razziali del ’38».Quelli che stanno con Israele senza se e senza ma?«Di quale Israele parlano? Bisogna sempre distinguere e noi che siamo davvero vicini a Israele distinguiamo. Conoscono il dramma della Cisgiordania, oltre a quello di Gaza? I coloni sono fascisti che sono arrivati al governo con Ben Gvir e Smotrich».Lei ha creduto nel sionismo.«Ho creduto nel sogno di Sion, dei kibbutz a piantare gli ulivi e far crescere il grano. Dopo la guerra dei 6 giorni sono tornato lì, mi mostravano il confine. “Guarda qui è tutto coltivato, lì tutto giallo, andremo anche lì”. Un orgoglio che è diventato un veleno».Avrà fine?«È un conflitto che non si risolve, la definizione di una tragedia».Tornando in Italia, questa occupazione di tutti gli spazi quanto può durare?«Qualunque potere si espande fino a quando non trova un contropotere che lo limita».Quale può essere il contropotere?«Può nascere da un trauma economico, non da altro. Gridare al fascismo è inutile e controproducente. È un messaggio che arriva solo a persone che non hanno bisogno di ascoltarlo».Fa bene Meloni a non dirsi antifascista?«Certo. Perché non lo è e perché deve arrivare all’8 giugno con il massimo possibile di forza elettorale, dai camerati di Acca Larentia alla borghesia impaurita dall’impoverimento».L’alternativa com’è messa?«Male. Non ha la concretezza e la brama di potere che tiene unita la destra. Finché non troverà un equilibrio tra diritti civili e diritti sociali non ce la farà».Il Pd?«È troppo diviso. Non sono mai stato comunista, ma ricordo con quale apprezzamento noi liberali di sinistra gobettiani guardavamo il cosiddetto centralismo democratico. Dicevamo: in Italia ci sono tre cose serie, il Vaticano, i carabinieri e il Pci. Forse si salvano i carabinieri».Lei come Scalfari non si è mai pentito della linea della fermezza contro le Br durante il sequestro Moro.«Eugenio un giorno fece un ragionamento che mi fulminò: se noi liberiamo dieci brigatisti condannati in base a una sentenza di un tribunale per liberare Moro, chi ci sottrarrà al ricatto continuo? Domani potranno sequestrare una persona qualunque e se non faremo lo stesso diranno: per Moro sì e per il fornaio no? Ogni cittadino italiano diventerebbe oggetto di ricatto».Racconta che da giovane stava con Antigone, stavolta ha scelto Creonte?«Ho imparato a capire la legge di Creonte».Ho dimenticato di chiederle di Vannacci.«Non ne vale la pena». —