la Repubblica, 7 maggio 2024
Intervista a Susan Sarandon
Susan Sarandon a ventidue anni era rappresentante studentesca nelle proteste del Sessantotto, chiamata a parlare al Partito democratico. Nella sua vita recitazione e attivismo sono proseguite insieme: con Tim Robbins furono banditi dagli Oscar per anni, quando presentando nel ’93 il premio al montaggio esortarono dal palco il governo degli Stati Uniti a chiudere il campo di prigionia cubano in cui erano detenuti 250 rifugiati haitiani positivi all’Hiv. Tante le cause abbracciate, le proteste in strada, gli arresti, le polemiche. L’ultima lo scorso novembre per alcune frasi dette durante una manifestazione per la crisi umanitaria a Gaza (“Gli ebrei americani stanno vivendo un assaggio di come ci si sente a essere musulmani in America, spesso oggetto di attacchi di violenza”), per poi scusarsi sui social. L’attrice, 77 anni, un Oscar e cento titoli, sta per venire in Italia, chiamata in giuria al Riviera Film Festival di Sestri Levante. Nell’intervista – telefonica – l’attrice si racconta tra cinema, carriera, famiglia, attivismo.
Signora Sarandon nel suo profilo X c’è scritto di lei: madre, poi attivista e attrice. Ha scelto questo ordine?
“Tra le identità a cui tengo di più c’è prima la madre e poi l’attivista. Sono fortunata perché per lavoro uso l’immaginazione. E una volta che sai immaginare le cose, puoi immaginare cosa significhi essere una madre a Gaza che cerca di mantenere in vita i suoi bambini: allora hai empatia. E poi, una volta che hai empatia, sei un attivista. L’immaginazione è un muscolo che usi tutto il tempo, allora il cuore resta aperto e l’attivismo ne è il risultato diretto. Non si può fare a meno di volerlo, si deve testimoniare tutto. Tutta la bellezza e il dolore. Queste sono le storie che raccontiamo, molto importanti. Penso che avrei dovuto puntare a fare la narratrice invece dell’attrice. Potrei ancora cambiare”.
Lo scorso novembre si è ritrovata al centro di polemiche per dichiarazione giudicata antisemita.
“Alcune persone avevano preso una parte di una frase e l’hanno usata per dire che ero antisemita. Ma non era questo il discorso, la verità è che parlavo di come mi sento in colpa per tutti i bambini che sono stati persi. Solo che nel mio Paese, al momento, non si può criticare Israele senza essere chiamati antisemiti. Mi sono espressa, sono stata licenziata dalla mia agenzia e ho perso alcuni contratti. Non me ne pento affatto. E ho continuato a parlare. Uno dei miei figli è stato appena arrestato alla Columbia University, nelle proteste dell’altro giorno. Sono molto orgogliosa di lui, perché bisogna ribellarsi a ciò che sta accadendo, altrimenti si è complici”.
Lei è stata rappresentante studentesca durante le proteste universitarie del Sessantotto. Com’è cambiata la situazione per gli studenti che protestano oggi?
“È cambiato che tutti a Gaza avevano un cellulare per mostrare cosa stava succedendo. Quando è scoppiata la guerra del Vietnam c’erano giornalisti embedded, ed è per questo che c’è stata un’ondata di rabbia sul Vietnam. Noi studenti allora venivano allontanati con i gas, arrestati, non è diverso oggi. Ma se avessimo avuto dei telefoni per registrare quello che stava accadendo in Iraq, avrebbe fatto una grande differenza. Solo i nostri soldati conoscevano le cose orribili che gli era stato chiesto di fare, poi sono tornati e sono stati ignorati. Oggi gli studenti non accettano la versione dei media mainstream. La maggior parte delle persone che partecipa a queste manifestazioni è ebrea. Non si tratta di essere anti-ebraici, qui si parla di anti-colonialismo”.
Le sue origine sono italiane, lei ha tuttora un forte legame con l’Italia. La nuova occasione è il Riviera Festival che s’apre martedì 7 a Sestri Levante.
“Sarà un’esperienza nuova, e porto con me i miei ragazzi. È vero che amo tanto il vostro Paese, ho avuto una figlia da voi (Eva Amurri, avuta con il regista Franco Amurri ndr.)”.
Da tempo lei cerca di ottenere la cittadinanza italiana. Ce l’ha fatta?
“No, sto ancora aspettando. Tutti mi dicono che i documenti ci sono, devono essere firmati. Passo per la città natale di mio nonno, Ragusa, mio cugino sta cercando di aiutarmi, ma non è andato avanti nulla”.
Ricorda la sua prima volta in Italia?
“Venni in visita da Gore Vidal. Avevo fatto una sua commedia, e stavo passando per Roma mentre andavo in Tunisia per realizzare un dramma televisivo in costume. L’Italia fa i migliori costumi e le migliori parrucche, gli allestimenti erano tutti a Roma. L’ho amata subito, ho sempre pensato che mi sarei ritirata in Italia, ma poi, inizi ad avere dei nipoti negli Stati Uniti e cambi idea”.
Era molto amica con Vidal?
“Sì. All’epoca avevo un posticino minuscolo in piazza del Popolo, lui un bell’appartamento in piazza Navona. Entravo in questo palazzo gigantesco attraverso il cortile e il magnifico corridoio. I nostri compleanni erano a un giorno di distanza l’uno dall’altro, e così li abbiamo festeggiati insieme. Ho trascorso del tempo anche a Ravello, nella casa di Gore sulla Costiera amalfitana. È lì che ho fatto un test di gravidanza e ho scoperto di essere incinta. Gore è stato il padrino del mio figlio più piccolo. Lo ammiravo davvero ed era la persona più divertente”.
Un Oscar, un Bafta, due David di Donatello. Personaggi iconici, Suor Helen di Dead man walking, Janet Wiss di The Rocky Horror, Louise di Thelma&Louise. Quale film e quale personaggio le citano di più?
“Sono andata a questo evento, Comic-Con, dove la gente viene a incontrarti e ti chiede un autografo, ti scatta una foto e tutto il resto. La cosa piuttosto interessante è che la mia carriera è così lunga e variegata che le persone si sentono profondamente legate a molti film, diversissimi. Non posso dirne solo uno. Ci sono i fan sfegatati di Rocky Horror e si vestono come loro e sono andati agli spettacoli per tutta la vita. Per molti significano tanto l’amicizia e la ribellione di Thelma e Louise, ma anche James e la pesca gigante da Roald Dahl: l’altro giorno qualcuno è venuto da me e mi ha recitato un’intera scena del film, facendo entrambe le parti. E poi ci sono quelli che amano Atlantic City, i fan pazzi per Miriam si sveglia a mezzanotte e David Bowie. Tantissimi hanno nel cuore Dead man walking, dicono che quel film ha cambiato la loro vita, un certo numero di persone mi dicono che Il cliente è davvero importante per loro, che hanno smesso di bere. È un dono poter parlare con persone che apprezzano il tuo lavoro: capisci l’impatto che hai sulla vita degli altri, di cui non ti rendi nemmeno conto quando esce un film”.
Cosa diversa dal teatro.
“Lì hai in effetti una risposta, una relazione con il pubblico, perché, nel bene e nel male, hai il controllo di ciò che stanno vedendo. Senti che stanno ridendo, o piangendo o che non sta succedendo nulla. Ma quando fai un film – a meno che tu non vada in tutte le sale e ti sieda lì, il che può essere una cosa divertente da fare – non hai idea di come il tuo lavoro stia influenzando le persone. Perciò devi stare così attento a ciò che scegli di fare, perché stai rafforzando gli stereotipi o sfidando gli stereotipi. Anche in commedie del genere. Ad esempio ho un film in uscita a luglio, The faboulos four, con Bette Midler, una commedia con quattro donne. Una vera commedia slapstick sull’amicizia, del rapporto tra donne, di quanto sia importante dare valore alle proprie amiche nella vita. Un film molto leggero ma che contiene sentimenti e riflessioni. E tu non puoi che sperare che le persone ci si ritrovino”.