la Repubblica, 7 maggio 2024
Il sindacalismo giallo
Il nuovo sindacato della Rai rientra perfettamente nella definizione classica di “sindacato giallo”, che secondo Wikipedia è questa: “attività antisindacale ottenuta tramite la creazione o il controllo imprenditoriale di sindacati dei lavoratori”. Fenomeno antico quanto il sindacalismo: in pratica un metodo sleale per travestire da sindacato gli interessi padronali.
Che alla Rai non sono più gli interessi “dei partiti”, come è stato per tanto tempo. Sono gli interessi del governo Meloni. Chi non coglie la differenza, direbbe Totò, si informi.
Negli Stati Uniti il sindacalismo “giallo” è illegale dal lontano 1935. In Italia l’episodio storicamente più noto è il sindacato giallo creato alla Fiat da Vittorio Valletta negli anni Sessanta: firmò contratti subito ripudiati dai sindacati “veri”. In sostanza, un fallimento.
Nello specifico Rai, la faccenda ha un connotato particolarmente protervo, e volendo perfino divertente: del nuovo sindacato giallo fanno parte quattro direttori di tigì su cinque, con la sola eccezione di Mario Orfeo che dirige il Tg3.
Da che mondo è mondo il direttore di una testata, essendo nominato dall’editore, non partecipa alle vertenze sindacali, se non come mediatore tra la proprietà, che lo ha nominato, e i suoi giornalisti, con i quali lavora ogni giorno.
Questi magnifici quattro (quattro su cinque: e ancora hanno la faccia di bronzo di dire che è «solo normale spoils-system») devono il loro ruolo in larga parte all’essere di destra. Va bene la riconoscenza: ma almeno sul sindacato giallo potevano, per questioni di stile, e di ruolo, fare un passo indietro. Ma no: nemmeno salvare la forma. Non direttori, ma pretoriani del potere.