Corriere della Sera, 6 maggio 2024
Su Goebbels
Nel febbraio del 1943 Adolf Hitler, dopo la catastrofe di Stalingrado, si trovò ad affrontare la crisi più grave della propria storia. Che le cose non stessero andando per il verso giusto era intuibile già nell’autunno precedente. Tant’è che Joseph Goebbels, il quale, con ruoli diversi, da quasi due decenni si era occupato della propaganda hitleriana, alla fine d’ottobre del 1942 notò nei propri diari che il motto «Vinceremo!» veniva sostituito sempre più spesso dalla frase «Dobbiamo vincere!». Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre Erwin Rommel subì, nella seconda battaglia di El Alamein, una pesante sconfitta in Nord Africa. Il 17 gennaio Goebbels pubblicò sul «Reich» un clamoroso articolo programmatico dal titolo La guerra totale in cui scrisse: «Quanto più radicale e totale sarà la nostra conduzione della guerra, tanto più velocemente giungeremo alla sua vittoriosa conclusione». Una «piccola parte del nostro popolo», aggiunse, «non sembra interessata a questo esito». E puntò l’indice contro i «nullafacenti», i «fannulloni», i «parassiti». Capiva perfettamente (e lo scrisse sul diario) che affrontare questo argomento in pubblico rischiava di danneggiare l’immagine della Germania, quantomeno all’estero. Ma riteneva che i «vantaggi politici interni» fossero maggiori del danno provocato fuori dai confini tedeschi.
Decise poi di tornare su quel concetto con un discorso pronunciato il 18 febbraio destinato a entrare nella storia e ad essere considerato uno spartiacque. Di questa allocuzione si occupa adesso Peter Longerich in Goebbels e la «guerra totale». Il discorso al Palazzo dello sport del 1943, che esce domani per i tipi dell’Einaudi. La teoria che fece da spina dorsale di quel discorso non era del tutto nuova. Otto anni prima, nel 1935, il generale Erich Ludendorff aveva già teorizzato la «guerra totale» facendo proprie le conclusioni a cui, già negli anni Venti, altri, in modo meno netto, erano giunti a seguito di approfondite meditazioni sulla Prima guerra mondiale.
Un futuro conflitto – sostenevano – poteva essere affrontato con probabilità di successo solo «sottomettendo coerentemente alle esigenze belliche tutti gli aspetti della vita». Il che implicava la «conversione dell’intero apparato produttivo in un’efficace economia di guerra», il «controllo totale sull’impiego della forza lavoro», ma soprattutto la conduzione di una straordinaria battaglia propagandistica interna ed esterna. Nonché la creazione di un «fronte interno» assolutamente chiuso.
Nuove misure «meccanico-organizzative» avrebbero risolto i problemi dell’approvvigionamento del popolo e delle forze armate. Ma non stava lì il problema. Bensì nella creazione di una «coesione spirituale del popolo». Per ottenere la quale occorreva il massimo della concentrazione in vista di un ricorso «estremo» all’identificazione di un unico bersaglio: gli ebrei. E a questo dovevano servire le parole pronunciate dal palco del Palazzo dello sport. Il discorso di Goebbels si tenne tra le 17 e le 19 e fu trasmesso per radio alle 20. Agli ascoltatori non venne comunicato che si trattava di una registrazione e non si esclude, scrive Longerich, che l’audio sia stato modificato a ridosso della trasmissione allungando gli applausi o aumentando il volume delle reazioni del pubblico. Dettaglio importante dal momento che la fine del discorso era composta da dieci domande alle quali gli astanti venivano chiamati a rispondere con una «tempesta di approvazione».
Ed eccoci al discorso. Prima di rivolgere le dieci domande alla platea, guardando i soldati e i feriti seduti in prima fila, Goebbels afferma apoditticamente che le persone riunite per l’occasione nel Palazzo dello sport rappresentano «un frammento di tutto il popolo tedesco nel miglior senso della parola». «Solo di ebrei non se ne vedono», aggiunge suscitando un boato di risate. Le domande si assomigliano l’una all’altra. Ad esempio, l’ultima, la decima, è esplicitamente demagogica: «Siete d’accordo che soprattutto in guerra, secondo il programma del Partito nazionalsocialista, si debbano applicare gli stessi diritti e doveri a tutti, che la patria debba sopportare tutta insieme i pesanti fardelli della guerra e che tali fardelli debbano essere equamente divisi fra chi sta in alto e chi sta in basso, fra ricchi e poveri?». Quel che conta non è la scontata risposta, ma il crescendo di entusiasmo. Il suo obiettivo era di creare l’impressione che fosse la «voce del popolo» a chiedere la «guerra totale» e che lui, scrive Longerich, avesse «semplicemente ripreso e documentato (non certo creato ex novo) questa volontà».
Veniamo agli ebrei. George L. Mosse in Le origini culturali del Terzo Reich (il Saggiatore) sostiene che l’«astuto» Goebbels già dagli anni Venti aveva trovato una perfetta sintonia con la «pragmatica» Dnvp (Partito popolare nazionale tedesco) nella creazione dello stereotipo antisemita con cui si identificava nell’ebreo l’unico effettivo ostacolo alla realizzazione della «società ideale». Paul Hanebrink, in Uno spettro si aggira per l’Europa. Il mito del bolscevismo giudaico (Einaudi), racconta come poco tempo dopo quel discorso, nell’aprile del 1943, allorché furono trovati i corpi degli oltre ventimila ufficiali polacchi uccisi dai sovietici e sepolti nella foresta di Katyn, fu Goebbels a creare l’immagine apocalittica del «terrore giudeo-bolscevico», inventando il coinvolgimento nell’operazione di fantasiosi «reparti di sterminio ebraici».
Ian Kershaw in Hitler e l’enigma del consenso (Laterza) sostiene che Goebbels pronunciò il discorso del 18 febbraio 1943 per «sfruttare, articolare e rinforzare» tendenze d’opinione che poi confluirono «nell’aspirazione a una rinascita nazionale della Germania». Facendo leva sulle «stesse divisioni profonde che laceravano il Paese» al fine di alimentare «quel vivo desiderio di unità che trovò risonanza negli slogan nazisti a favore della comunità popolare». Secondo Michael Burleigh, autore di Il Terzo Reich. Una storia vera (Bur), in quell’occasione le parole di Goebbels erano rivolte anche agli Alleati e ai Paesi neutrali «nell’illusione che una Germania ancora nazista potesse essere cooptata in una strategia di contenimento dell’Urss». Burleigh, in un certo senso contraddicendosi, ha notato però che in quel discorso Goebbels «quasi confessò l’inconfessabile». Proprio nella parte dedicata agli israeliti quando disse che la Germania non intendeva «cedere» alla minaccia da essi rappresentata, «ma reagire per tempo e, se necessario, ster… (si corresse) eliminare gli ebrei nel modo più drastico e radicale». Cosa che avrebbe reso impossibile l’alleanza con gli angloamericani.
Longerich – già autore di una documentatissima biografia di Goebbels pubblicata sempre da Einaudi – fa notare come quell’allocuzione non ebbe, nei Paesi nemici, l’eco che avrebbe meritato. Il «Chicago Daily Tribune» fu l’unico giornale americano a pubblicarne, il 19 febbraio, un breve riepilogo in prima pagina. Il «Los Angeles Times», quello stesso giorno, offrì ai propri lettori un sunto altrettanto breve in una colonna della terza pagina. Anche se poi, il 20 febbraio, gli dedicò un commento piuttosto allarmato. Chi intese immediatamente il senso del messaggio, furono invece gli israeliti. Victor Klemperer, riparato in una Judenhaus di Dresda, nel libro Testimoniare fino all’ultimo (Mondadori), racconta che l’eco di quel discorso gli giunse mentre era in visita al cimitero dei suoi correligionari, dove «erano tutti molto depressi» perché capivano che, per gli ebrei, quelle parole segnavano la fine di ogni residua speranza di sopravvivenza.
Il discorso al Palazzo dello sport fu utilizzato da Goebbels a fini personali. Gli servì a riguadagnare un ruolo di primo piano nella gerarchia nazista. Perché? Con lo scopo di rendere più funzionale la condotta delle forze armate tedesche in quello snodo così delicato, Hitler aveva appena istituito un «comitato a tre» atto ad affrontare la nuova fase della guerra. Al comitato, composto da Wilhelm Keitel, Hans Lammers e Martin Bormann, era stato assegnato il compito di riferire regolarmente al Führer ogni riflessione che si discostasse dai piani ufficiali e potesse giovare al buon funzionamento della macchina militare. Goebbels aveva previsto di non essere tra i prescelti. «Alcuni circoli», scrisse nelle sue note private, «stanno cercando con tutti i mezzi di escludermi dal comitato consultivo ristretto… Sono molto preoccupato che soprattutto Lammers e Keitel possano provare ad annacquare le decisioni più radicali». Per dargli un contentino, il decreto stabilì che il comitato sarebbe rimasto in «stretto contatto» con il ministro della Propaganda (cioè Goebbels).
Poi Hitler lo convocò (assieme ad altri) alla prima riunione di quello che il ministro – a sottolineare l’importanza della propria presenza – si affrettò a definire nei propri appunti «comitato a quattro». Aggiunse quindi a suo conforto: «Sono considerato e riconosciuto come l’elemento trainante dell’operazione e inoltre tutte le proposte che faccio per nuovi decreti e per la revisione dei vecchi passano senza problemi». Poi, quasi a sancire pubblicamente i termini di quella ritrovata «considerazione», fu lo stesso Goebbels a proporsi per il discorso al Palazzo dello sport. E centrò l’obiettivo.
Proprio perché il discorso, come scrive Longerich, è l’estrema manifestazione di quella che viene comunemente identificata come «propaganda di Goebbels», sinonimo di una «trama di bugie audaci e pericolose». L’accusa di distorcere la verità «alla Goebbels», ironizza Longerich, è ancora oggi, non solo in Germania, un rimprovero davvero grave, «quasi l’ultima arma nell’arsenale delle polemiche politiche». L’allocuzione è considerata un modello esemplare di «suggestione di massa», di manipolazione e seduzione quasi illimitate di un pubblico accecato e impotente di fronte al bombardamento della propaganda. Il 18 febbraio del 1943, una folla in delirio si unisce alla richiesta della guerra «totale», chiede che sia «ancora più totale» e segue docilmente il relatore che proclama «la guerra più totale in assoluto» quasi scusandosi che essa non lo sia già e anzi sia solo «abbastanza totale». In un certo senso l’evento sembra confermare l’ipotesi «secondo cui la popolazione tedesca dell’epoca fosse quasi completamente soggetta alla manipolazione dell’apparato propagandistico». Una «teoria della seduzione» che, sempre secondo Longerich, offre una spiegazione apparentemente plausibile del perché i tedeschi sostenessero il regime a dispetto dei suoi evidenti crimini e delle altrettanto evidenti malefatte. Persino quando si cominciò a intravedere la sconfitta.
Quanto a Goebbels, Longerich registra come nei suoi diari si trovino continuamente espressioni del tipo «applausi fragorosi», il «pubblico è impazzito», l’atmosfera s’è fatta «esplosiva». Descrivendosi «in gran forma», anzi «in forma eccellente», «in forma strepitosa». Qualcosa di non inusuale. Dopo le esibizioni, scrive Longerich, Goebbels, «amava godersi il trionfo appena ottenuto con una cerchia più ristretta» e regolarmente, uno o due giorni dopo i suoi interventi pubblici, il ministro riportava nel diario brevi annotazioni in cui «si deliziava in modo quasi puerile dell’enorme eco positiva ottenuta nei media… risultato però organizzato e predisposto fin nel dettaglio dal suo stesso ministero». Il «narcisismo esuberante» e la «propensione all’entusiasmo per il proprio successo» inducevano però Goebbels a «sopravvalutare di molto la qualità e l’efficacia della propria attività». Il ministro «non era in grado di cogliere la differenza tra la percezione di sé e la valutazione che davano gli altri della sua persona, le due cose per lui coincidevano». Il «desiderio di risultare ogni volta straordinario» era così forte da indurlo, in preda all’euforia, a trasporre l’esperienza estatica del proprio successo al giudizio degli altri sulla sua performance». Una sorta di narcisismo, mai scoraggiato da Hitler, che lo esponeva al ridicolo con gli altri gerarchi nazisti, alcuni dei quali però erano affetti da identica megalomania.
Matthias Joseph Mehs di Wittlich che fino al 1933 era stato un politico dello Zentrum (il Partito cattolico di centro) scrisse sul proprio diario la sera stessa del 18 febbraio 1943: Goebbels ha parlato molto forte «come se avesse il coltello alla gola». In futuro «si farà fatica a capire come in un periodo così serio un rappresentante del governo abbia potuto lavorare con trucchi così sciocchi e come il popolo abbia potuto tollerare una cosa del genere con una pazienza da agnello». Ma ci volle del tempo prima che i tedeschi si liberassero di quell’ipnosi e capissero quel che era stato chiaro immediatamente a Mehs la sera stessa del discorso al Palazzo dello sport.