Il Messaggero, 5 maggio 2024
Intervista a Luca Barbarossa
Non ha mantenuto la promessa, Luca Barbarossa. Quando nel 2021, a 60 anni, ha pubblicato il suo primo libro, l’autobiografia Non perderti niente, aveva detto che non avrebbe mai fatto il bis («Prometto che il prossimo lo scriverò a 120 anni»). Martedì prossimo, invece, uscirà Cento storie per cento canzoni (con i disegni di Michele Bernardi), raccolta di pensieri, ricordi e intuizioni che gravitano intorno a brani che di fatto negli ultimi anni sono entrati nel bagaglio emotivo di tantissima gente. Forse Barbarossa ha fatto bene a non essere di parola.
Ha anche cambiato editore non ci sarà mica stata un’asta?
«Per carità. Il primo è andato benino, ma era un episodio isolato: il contratto valeva solo per un titolo. Per essere più libero e “leggero” ormai da anni faccio sempre così: mi impegno solo per un progetto alla volta».
Idea sua o dell’editore?
«L’editore Elisabetta Sgarbi mi ha chiesto se avessi qualcosa da proporle e io le ho risposto di sì: una guida musicale che parla inevitabilmente della mia vita, di quella di altri cantanti e autori, e di tanta umanità che gira intorno a questi autentici gioielli».
Ci sono anche pezzi suoi?
«No. Sarei stato eccessivo. Ho scelto bellissimi brani con retroscena interessanti e densi di significato. È stato un bel viaggio a ritroso».
E facendolo, cosa l’ha sorpresa di più?
«La parabola esistenziale di un uomo che da decenni regala momenti di gioia a milioni di persone. Mentre scrivevo un giorno ho ascoltato Someday My Prince Will Come, uno dei temi di Biancaneve, nella versione di un pianista jazz che amo tantissimo come Bill Evans. Mi sono incuriosito e ho cercato di saperne un po’ di più del compositore, l’americano Frank Churchill. Ho scoperto che vinse un Oscar nel 1942 per la colonna sonora di Dumbo, scrisse il tema Heigh-Ho dei Sette nani di Biancaneve, quello di Bambi e via dicendo. Insomma, un genio. Che nel 1942 invece di vivere felice e contento, sfiancato dalla depressione, si sparò un colpo di fucile in testa, lasciando moglie e figlia piccola. Ma non è finita: la prima volta che venne eseguita in chiave jazz fu nel 1943 dai Ghetto Swingers, un gruppo di detenuti del campo di concentramento di Theresienstadt, in Germania».
In un lager?
«Sì. I nazisti volevano far credere a un gruppo di osservatori esterni che fosse un posto normale. Solo che i deportati volevano chiamarla Tributo a Churchill, omaggiando il grande musicista appena scomparso e lo statista britannico. Glielo impedirono, ovviamente. Insomma, racconto anche storie così».
Parliamo d’altro: lo prenderebbe il posto di Amadeus a Sanremo? Un suo collega come Claudio Baglioni l’ha già fatto nel 2018 e 2019, e lei da anni in radio fa uno show seguitissimo.
«Sto già lavorando per diventare il prossimo presidente del Consiglio».
Andiamo, in Rai qualche proposta gliel’hanno fatta o no?
«Ogni tanto una battuta sì, ma certi meccanismi sono complessi. Ci sono conduttori televisivi molto più blasonati di me».
Se arrivasse un’offerta ovviamente la valuterebbe, giusto?
«Certo. Chi non la considererebbe? Io ho voluto molto bene al Festival, e Sanremo mi ha dato tantissimo. Ci sono stato nove volte e nel 1992 arrivai a vincerlo, ma per quel ruolo c’è la fila. Ho fatto il presidente di giuria, al Social Club ogni anno ospitiamo le fasi finali di Sanremo Giovani e nel 2019 abbiamo premiato Mahmood che poi arrivò al primo posto».
Praticamente l’uomo giusto al posto giusto.
«Non esageriamo. Se mi chiamassero per qualche cosina potrei anche collaborare, ma fare il conduttore o il direttore artistico del Festival mi sembra molto improbabile. Rai1 ha personaggi di spicco molto graditi al pubblico e meno rischiosi di me. Io non ho mai condotto dei programmi in prima serata su Rai1».
Nel libro ci sono canzoni di Beatles e Lucio Dalla, Bob Dylan e Michael Jackson, Little Tony e Police: cosa dice di lei questa selezione?
«Non lo so. Forse dovrei dare il libro a uno psicanalista. Non c’è una logica, ho semplicemente scelto belle e cose interessanti da raccontare. Come Strange Fruits di Billie Hallyday, per esempio, sui neri che venivano impiccati agli alberi; o La ballata di Sacco e Vanzetti di Ennio Morricone, cantata da Joan Baez. E poi c’è la numero 101 che ho dedicato a un grande amico che non c’è più, il giornalista Ernesto Assante. Per lui ho scelto L’aquila di Lucio Battisti. Poco prima che se ne andasse gli avevo chiesto di leggere il libro per verificare se ci fossero errori».
Ce n’erano?
«Qualcuno. Me l’ha segnalati e li ho corretti. È stata una delle ultime cose che ha fatto».
Di brani recenti non ce ne sono, vero?
«Verissimo. È un libro un po’ vintage. Mi fermo agli Anni ’80 e ’90 con Vita spericolata di Vasco Rossi e Creep dei Radiohead».
La canzone che la fa commuovere sempre e comunque?
«La canzone dei vecchi amanti di Jacques Brel nella versione di Franco Battiato del 1999. Da bambino la sentivano sempre i miei genitori. La prima volta che l’ho sentita credo di aver pianto per venti minuti. Mi ha svelato una malinconia che evidentemente avevo dentro da una vita».
Quella che le ha salvato la vita?
«Like a Rolling Stone di Bob Dylan. Quel pezzo ha un testo micidiale. Dire a chi ha basato tutta la sua vita sul successo, come ci si sente a stare dalla parte di chi non sa dove andare a sbattere la testa, cosa si prova a essere nessuno, lo trovo devastante. E illuminante».
E per tirarsi su quale sceglie?
«Veronica di Enzo Jannacci, divertentissima storia di iniziazione sessuale».
Al concertone del Primo Maggio la politica dalle canzoni è praticamente scomparsa: che ne pensa?
«Non l’ho visto, sono sincero. Ma so che c’era il mio amico Stefano Massini, con il quale ho appena registrato un intervento nel suo nuovo programma per Rai3, Riserva indiana (insieme la scorsa stagione hanno portato nei teatri lo spettacolo La verità, vi prego, sull’amore, ndr), in onda fra pochi giorni. Lui ha parlato di incidenti e morti sul lavoro».
Quasi tutti i giovani, però, non hanno detto una parola.
«Il rischio dell’autocensura è molto forte. Sapere che quando si esprimono le proprie idee si può essere travolti dall’odio dei social, frena quasi tutti».
Certo, però ormai nessuno si espone: perché?
«Per non inimicarsi una parte di pubblico. Credo succeda solo da noi, almeno in questi termini. È un peccato. Gli artisti hanno il diritto e il dovere di essere scomodi».
Tre anni fa disse che stava scrivendo il soggetto di un film: a che punto è?
«Una cosa alla volta. Questo libro, per esempio, in autunno diventerà uno spettacolo teatrale. Per ora sto lavorando a questo progetto».
A un disco con suo figlio pianista, che studia al Conservatorio, ha mai pensato?
«No. È bene che ognuno segua la sua strada. Abbiamo un ottimo rapporto, meglio così. Lui non si appoggerebbe mai a me, giustamente».
In passato ha detto che per lei Bob Dylan è Dio. Quindi non crede, giusto? Invecchiando è cambiato qualcosa?
«Non ho il dono della fede, purtroppo. Dall’altra parte per me c’è il nulla, meglio seminare bene qui».