il Giornale, 5 maggio 2024
Un mondo di sole donne
Il movimento nato in Corea nel 2019 sbarca
negli Usa. Niente matrimonio, figli, appuntamenti
e relazioni sessuali con uomini, col fine implicito
di realizzare un universo totalmente femminile
di; Angela Bubba
un certo punto la parità non basta più, bisogna quindi spingere sull’acceleratore e fare un passo ulteriore verso quella che non è una mera fantasticheria: è questo il fondamento che anima il movimento 4B, collettivo online portato avanti da femministe radicali che si battono per un mondo senza più uomini, letteralmente.
Nato in Corea del Sud nel 2019, il 4B deve il suo nome a quattro pilastri, ossia quattro rifiuti essenziali che le attiviste attuano e sponsorizzano: rivendicano cioè il bihon, il bichulsan, il biyeonae e il bisekseu, che tradotto vorrebbe dire niente matrimonio, niente figli, niente appuntamenti e niente relazioni sessuali con maschi, col fine implicito di realizzare un universo totalmente femminile (e allo stesso tempo, come è già stato notato, accelerare il processo di estinzione umana).
D’istinto penso subito a Federico Fellini, che ha già grottescamente prospettato un’iperbole tanto azzardata, sebbene sottoforma di divagazione onirica e comunque circoscritta: ne La città delle donne, film del 1980, Marcello Mastroianni alias Snàporaz finisce in un albergo gestito da femministe che professano ciò che in sostanza professa il movimento 4B, basato sull’assunto che agli uomini possiamo in definitiva rinunciare, gli uomini non sono che degli inetti e bisogna liberarsene. Viene però anche in mente la sociologa statunitense Charlotte Perkins Gilman, vissuta tra XIX e XX secolo e che nel suo lavoro più celebre, il romanzo Herland, anticipa clamorosamente le posizioni attuali, fantasticando su una terra popolata solo da donne: visione che fino a non molto tempo fa poteva passare per proposta utopica, mentre ora è sempre più plausibile, se non nella sua attuazione concreta almeno nella sua contestualizzazione formale, nell’inizio di un percorso che dalla teoria è giunto alla pratica, e dall’Asia sta via via raggiungendo l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti.
Questo passaggio di testimone, da non sottovalutare, è avvenuto soprattutto negli ultimi mesi, coinvolgendo target assai trasversali. Lo vediamo specialmente da YouTube, TikTok e Instagram, piattaforme dove migliaia di utenti continuano a dibattere del problema, a volte sollevando criticità e incongruenze, più spesso garantendo supporto alla causa. In altre occasioni, con un livello di sorpresa che raggiunge il sollievo, si arriva retoricamente a chiedersi: «Gli Stati Uniti sono pronti per il movimento 4B?»
Una domanda che potrebbe presto ribalzare in Europa, come in altre aree geografiche del resto. Siamo davvero preparati, anzi preparate, a uno scenario del genere? Davvero questa è la direzione più saggia da seguire per rendere pienamente appagante la nostra esistenza? Questione certamente spinosa e che non riceverà mai risposte univoche, e dietro la quale si celano non poche motivazioni scatenanti. Il movimento 4B non nasce infatti dal nulla, si è originato e si sta facendo strada non casualmente, e su questa evoluzione occorre riflettere. Occorre andare anche qualche anno indietro rispetto al 2019, quando in Corea del Sud la pluripremiata autrice Cho Nam-Joo pubblicò lo sconcertante romanzo Kim Jiyoung, nata nel 1982, vero e proprio caso editoriale in Corea, che racconta dell’esistenza asfissiante di una donna puntualmente alle prese con atti misogini
e sessisti. A questo è poi da aggiungere la diffusione della campagna di protesta Escape the Corset (Sfuggi il Corsetto), del 2017, attraverso cui le sudcoreane si ribellarono a standard di bellezza assolutamente disumani e improponibili. E anche qui le testimonianze non mancarono: come quella della fotografa Joan Bora, che ritrasse un gruppo di militanti con la testa rasata a zero in segno di protesta, oppure quella della giovane Summer Lee, che decise di filmarsi col viso struccato e con indosso abiti maschili.
Semplici provocazioni? Non tanto, o meglio, non del tutto. Dietro questi gesti di sfida, all’apparenza superficiali, si cela infatti un abisso di processi sociologici, che vedono da un lato la reiterazione di comportamenti stratificati (leggi pure tradizione) e dall’altro la ribellione a quest’ultimi, con l’ovvio sviluppo di incomprensioni profonde come faglie, per usare un eufemismo. Sono lontani, lontanissimi i tempi in cui Alberto Moravia mandava lettere ad Elsa Morante per lamentarsi della difficoltà tutta umana dell’esprimersi, ciononostante salvando un ultimo, disperato scampolo di successo relazionale. «Capirsi dopo tutto è impossibile» scriveva da Roma nel 1961. «Si può soltanto, forse, comunicare senza capirsi». Oro colato per i nostri tempi, e per la vicenda di cui sto parlando, che ci dice che siamo già palesemente oltre, ci insegna che anche l’ultimo baluardo comunicativo è saltato e per parlare non rimane che la rabbia: parola citata non fortuitamente, visto che traduce uno dei concetti chiave del movimento 4B come della campagna Escape the Corset, una sorta di ombrello polifunzionale che protegge e insieme convoglia le diverse istanze.
Rabbia, dunque, per la precisione rabbia sudcoreana, tra l’altro attentamente studiata e recensita nel corso degli ultimi anni. C’è chi (uomini tanto quanto donne) vuole prenderne le distanze, c’è chi ancora non sceglie una posizione netta e c’è chi ne canta lodi sperticate, come avviene all’interno di un articolo pubblicato dalla Cambridge University Press, dove si afferma che la «rabbia come forza corporea può essere combinata con altre modalità emotive per ottenere coerenza, durata, efficienza e intensità».
Diverse angolazioni critiche, come vediamo, puntate però tutte su un unico orizzonte: una vita umana che sogna (più o meno disperatamente, più o meno drasticamente) la dissoluzione del suo contraltare, un panorama creaturale dove solo la donna troverebbe spazio per esistere, per crescere e continuare ad evolversi. Ma è verosimile tutto questo? Siamo di fronte a una prospettiva ideale o tangibile? Da qui a cent’anni, per dire, ci si troverà a vivere in un pianeta di sole donne?
Se sto arrivando a chiedermelo è perché in fondo i presupposti ci sono. Magari non verranno realizzati del tutto, la potenza non diverrà mai atto completo; eppure una base di sensibilità orientate esiste, c’è e fa parecchio rumore al momento, affermando quanto sia sensato desiderare o addirittura pretendere un mondo senza maschile. Una parte di me definirebbe drammatica questa eventualità, mentre l’altra parte direbbe che questa stessa eventualità è già palpabile, è immaginabile, quindi è infinitamente reale.