Corriere della Sera, 5 maggio 2024
I microbi protagonisti della storia
Il mio professore del liceo insegnava la storia per «linee di tendenza». In un’ora di lezione era in grado di coprire archi storici di svariati secoli, seguendo un filo interpretativo che collegava eventi apparentemente lontani. Da quegli excursus uscivo con pagine fittissime di appunti, che a rileggerli davano le vertigini. In ragione del loro potere riassuntivo, le lezioni del professore sono state davvero poche, una decina in tutto nei due anni che ha avuto la cattedra. All’epoca interpretavo la sua predilezione per le linee di tendenza con malignità, mi sembrava derivare soprattutto da una predilezione per il passeggiare avanti e indietro nel corridoio invece di stare in classe con noi. Ma ricordo ancora molto di quelle poche ore passate ad ascoltarlo. E oggi mi sembra che il professore avesse anticipato una modalità di trasmissione della storia che un paio di decenni più tardi si sarebbe imposta sul grande pubblico dei lettori.
Pathogenesis di Jonathan Kennedy (Bompiani) s’inserisce esplicitamente nel filone della storia narrata per linee di tendenza, del quale è doveroso menzionare almeno tre capisaldi: Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond, Sapiens di Yuval Noah Harari e L’alba di tutto di David Graeber e David Wengrow. La sfida che li accomuna è di raccontare tutta la storia dell’umanità – anzi tutta la storia e la preistoria dell’umanità, dalla comparsa dei primi ominidi a oggi – in un unico libro. Ogni opera che si aggiunge a questa filiera è anche una risposta alle precedenti. Harari ha ripreso, espandendole, le ipotesi di Diamond. Graeber e Wengrow hanno ribaltato provocatoriamente le idee di entrambi, con l’apporto di nuovi dati collezionati nel frattempo e di una visione fieramente decoloniale. Jonathan Kennedy offre un’integrazione a tutti loro, introducendo una linea di tendenza specifica: il contributo del mondo microbico, delle grandi epidemie, allo svolgimento della storia. «Questo libro, scrive, si propone di assumere uno sguardo diverso. La consapevolezza che i microbi svolgono un ruolo molto più importante nella vita umana di quanto mai ritenuto fino a pochi anni fa».
Ecco, molto brevemente, le «otto piaghe» a cui fa riferimento il sottotitolo della versione originale, otto piaghe che scandiscono le epoche e i capitoli:
le malattie misteriose che i Sapiens portarono con sé in Europa e che li fecero sostituire ai Neanderthal più immunologicamente esposti;
le zoonosi comparse nel Neolitico durante il passaggio dal nomadismo alla stanzialità;
la pestilenza che permise a Sparta di prevalere su Atene e quella che permise ai barbari di accelerare il crollo dell’impero romano;
la grande peste del 1300;
lo sterminio dei nativi delle Americhe a causa del vaiolo e degli altri morbi importati dagli europei;
la malaria, che avrebbe concesso niente meno che l’indipendenza agli Stati Uniti e avrebbe in seguito influito sulle sorti della guerra civile;
il colera durante la rivoluzione industriale inglese;
L’autore confuta l’idea delle stagioni segnate dai grandi uomini : Giulio Cesare, Napoleone...
e infine le «piaghe della povertà» del passato più recente, la loro relazione complicata con le ultime pandemie, la tubercolosi, l’Aids e ovviamente il Covid.
Nelle trattazioni così ampie e con un’intenzione così univoca esiste sempre il rischio del riduzionismo. Leggendo Kennedy si arriva a pensare che ogni grande cambiamento della storia, anche quelli insospettabili come l’affermarsi del cristianesimo, poi dell’islam e del protestantesimo, sia stato la conseguenza più o meno diretta di qualche contagio. Chiaramente è eccessivo. E tuttavia si tratta di una narrazione affascinante, soprattutto per la qualità eterogenea dei dati a cui Kennedy attinge, e per alcune immagini fulminee che scaturiscono da quei dati inconsueti. Ne ho annotate alcune:
la disposizione dei cadaveri seppelliti ad Atene durante la peste suggerisce, confrontando i vari strati, «un senso di panico crescente nella città»;
l’analisi di una carota di ghiaccio alpina ha mostrato che la peste del 1300 portò a una riduzione della concentrazione di piombo nell’atmosfera (dal momento che l’economia si era immobilizzata, non si estraeva più argento per la produzione di monete);
un altro carotaggio, stavolta nell’Artico, indica che la concentrazione di anidride carbonica diminuì bruscamente dopo lo sterminio dei nativi americani, perché d’un tratto la popolazione mondiale si era ridotta del dieci percento.
Leggere Kennedy produce talvolta lo stesso effetto elettrizzante di leggere Harari e Graeber/Wengrow, trasmette il senso di ricchezza presente nello studio odierno della storia, dove vengono mescolate fonti di ogni tipo. Un’idea della storia integrata, prismatica, così distante da quella che abbiamo imparato a scuola.
Anche Kennedy si oppone esplicitamente all’istruzione che ha ricevuto da ragazzo, in particolare si oppone alla storia scandita dalle biografie dei «grandi uomini»: Giulio Cesare, Alessandro Magno, Napoleone, Washington e Churchill, un approccio che oggi appare eroico e maschilista, quasi sempre eurocentrico. Ma critica anche, più sorprendentemente, la ricapitolazione della storia per movimenti delle masse. «Gli esseri umani, scrive, occupano un posto meno prominente di quanto pensino», perché in ogni epoca sono stati comunque una specie fra le specie, sovrastata e spesso indirizzata dall’enormità del mondo microbico. La rivoluzione che propone Kennedy è ispirata dalla biologia e dalla genetica, è una rivoluzione, se non proprio antispecista, di certo contraria all’arroganza dell’antropocentrismo. La storia di Kennedy è la storia per grandi infezioni, dove sui terreni di battaglia si scontrano, insieme alle armi, dei «campi di forza invisibili», le cariche batteriche e virali delle popolazioni, i diversi sistemi immunitari, talvolta annientandosi. Secondo Kennedy le patologie sono sempre state egemoni e il celebre titolo di Diamond, Armi, acciaio e malattie, andrebbe riformulato nel più monotono: Germi, germi, germi.
Avvicinandosi al presente, l’intenzione politica del saggio si fa più chiara. Kennedy non intende solo grattare via la patina residua della storia dei «grandi uomini», bensì affermare qualcosa di urgente riguardo alla nostra gestione delle malattie. Nelle otto piaghe che analizza ricorre il fallimento degli approcci sanitari basati su quello che chiama il laissez-faire. L’affidarsi agli dèi, alla provvidenza oppure al libero mercato a seconda del tratto storico. Ma se per secoli, prima che Louis Pasteur scoprisse l’onnipresenza dei microbi nel mondo, il laissez-faire era dovuto all’ignoranza delle cause di un’epidemia, nel mondo moderno il laissez-faire è diventato una responsabilità esplicita della politica, di un certo modo di pensare il progresso. Kennedy dedica spazio alla negligenza spietata del governo inglese nell’eradicare il colera dalle periferie sovraffollate durante la rivoluzione industriale. Dedica spazio al cinismo delle amministrazioni Thatcher e Reagan, che per culto del profitto lasciarono risprofondare i Paesi africani nelle piaghe endemiche, dopo anni di costante miglioramento.
«La conoscenza medica resta solo una piccola parte della gestione delle malattie infettive. Gli agenti patogeni prosperano grazie alle disuguaglianze e alle ingiustizie». Per misurare la sproporzione nella mortalità fra ricchi e poveri non è necessario spingersi fino in Africa. Tre ore di treno collegano il benessere di Kensington, a Londra, con l’abbandono della località balneare di Blackpool. Ma la differenza nell’aspettativa di vita media fra le due aree è di ventisette anni. Ventisette anni in meno dovuti a un’epidemia di indigenza.
In un momento in cui la vulnerabilità della sanità pubblica sta emergendo anche in Italia – una vulnerabilità dovuta a un accumulo prolungato di incurie, valutazioni errate, disinvestimenti, accentramento, migrazione verso il privato e malversazioni –, in un momento come questo, ancora memori dell’ultima pandemia, sarebbe bene anche per noi soffermarsi sulla portata di un paragrafo come questo, che Kennedy scrive con asciuttezza cronistica ma che suona come una profezia: «Uno studio recente stima che dal 2010 i tagli alla spesa pubblica britannica abbiano causato oltre diecimila decessi in più all’anno. L’esperienza britannica dimostra che, anche quando un Paese ha superato la transizione epidemiologica, i disservizi e le carenze possono creare comunque nuove piaghe non trasmissibili dall’impatto simile alle malattie infettive».