Corriere della Sera, 5 maggio 2024
Sulla fuga dei medici parla Remuzzi
La fuga dei medici all’estero quanto deve allarmarci? Rimarremo senza nessuno che ci curi?
«Il problema va considerato nel suo insieme – commenta il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano —. In base ai dati più recenti a preoccupare non è la carenza complessiva di medici bensì di specialisti, specie in medicina d’urgenza, microbiologia e patologia clinica. Invece il numero di laureati in Medicina rispetto alla popolazione per 100 mila abitanti ha un valore tra i più alti in Europa: 18,7 per 100 mila abitanti, rispetto a 9,9 in Francia e 12 in Germania. E anche l’aumento del numero dei dottori negli ultimi quattro anni non ha eguali come trend negli altri Paesi europei. Nell’ultimo decennio abbiamo una corrispondenza tra numero di neolaureati (circa 136 mila) e posti programmati per accesso a corsi di formazione post laurea (circa 146 mila). Il numero di medici attivi è di quattro ogni mille abitanti, in linea con la media europea. La carenza di specialisti in alcune aree è vera. E si deve alla scarsa attrattività di alcune scuole di specializzazione e alla mobilità estera, appunto. Del resto, se in altri Paesi si guadagna molto di più, è difficile trattenere gli specialisti che ci servono».
È quindi soltanto una questione di remunerazione non adeguata?
«Non solo. Anche e soprattutto una questione di motivazione e di organizzazione. È fondamentale lavorare da subito con gli specializzandi, che sono dottori a tutti gli effetti, e fare in modo che partecipino a concorsi per contratti a tempo determinato con la possibilità che diventino a tempo indeterminato dopo il diploma specialistico: ci sono emendamenti nel Pnrr approvato alla Camera che lo consentono subito. Lavorare insieme agli specializzandi, fra l’altro, comporta un vantaggio formativo anche per i loro tutor, perché l’entusiasmo dei giovani e la loro propensione alle attività digitali li rende una risorsa preziosa per i colleghi più anziani. Naturalmente va operata un’adeguata suddivisione del numero di borse tra le varie specialità mediche per evitare che continui a esserci un eccesso di specialisti dove non servono e carenze in altri. Altra cosa fondamentale è far diventare tutti gli ospedale poli di ricerca. La ricerca è un forte fattore di attrazione, anche per medici che arrivano dall’estero. In un reparto con queste caratteristiche di recente per un posto si sono presentati 35 candidati. È un tema culturale, bisogna essere capaci di creare una squadra».
Rimane comunque il problema del reperimento delle risorse necessarie.
«Le risorse si trovano se riducono gli sprechi, come quelli da esami inutili oppure da ricorso a farmaci più costosi di altri senza vantaggi significativi. Il problema è che se non si entra davvero nell’ordine di idee che la prosperità di un Paese dipende dal benessere dei suoi cittadini non si riuscirà mai a salvare il Servizio sanitario nazionale, che non è una cosa come un altra, ma da esso dipende la crescita di tutto il resto. Bisogna passare dal dirlo soltanto al mettere in atto soluzioni concrete. Trovando così i soldi anche per pagare di più medici e infermieri, specie quelli che fanno una vita più difficile, come quelli dei reparti di emergenza-urgenza, altro settore in sofferenza».
I fondi da reperire
Le risorse si trovano se si riducono gli sprechi, come quelli da esami inutili oppure da ricorso a farmaci più costosi di altri senza vantaggi significativi
Siamo arrivati al tasto dolente del Pronto Soccorso.
«Questo è un problema che si risolve con una riforma profonda della medicina territoriale, che di per sé farebbe diminuire drasticamente gli accessi impropri al Pronto soccorso e quindi garantirebbe una qualità di vita migliore per chi ci lavora, medici e infermieri, con ricadute positive per i pazienti che ne hanno davvero bisogno».
Come è possibile risolvere il nodo della medicina territoriale?
«Bisogna avere il coraggio di chiudere i piccoli ospedali e sostituirli con le case di comunità, o come si vogliono chiamare, e con gli ospedali di prossimità. Delle prime ci sono moltissimi esempi che funzionano benissimo. Posso citarne due, visitate di recente, a Ferrara e a Mantova. A proposito di quest’ultima la direttrice generale mi ha detto “Qui si trova di tutto tranne la rianimazione”. Quanto agli ospedali di prossimità possono essere affidati benissimo dagli infermieri che, se formati e motivati adeguatamente, sono perfettamente in grado di gestirli, assistiti da una telemedicina che sia davvero tale e non solo teorica».
Abbiamo lasciato indietro i medici di medicina generale.
«I medici “di famiglia” restano l’ossatura del nostro Servizio sanitario. Bisognerebbe aumentare la durata dei loro corsi di formazione da tre a quattro anni ed equiparare il titolo a quello delle altre scuole di specialità. Inoltre va incrementata la programmazione e la gestione della rete di formazione, che dovrebbe essere universitaria. In ogni caso non si possono risolvere i problemi affrontandoli di volta in volta quando le emergenze arrivano. Ci vogliono pensieri e azioni strategici»