la Repubblica, 3 maggio 2024
La verità sulle stragi è un’utopia
Conosceremo mai tutta la verità sulle stragi? E i mandanti? Non sapremo mai chi è stato! Quando si parla di stragi, frasi del genere sono all’ordine del giorno, le ho ascoltate mille volte, agli incontri, alle presentazioni, ai dibattiti, alla radio, quando si dà la parola al pubblico. Sono tutt’uno col sentimento diffuso che «le stragi sono tutte un mistero», germogliano dallo stesso terreno, ovvero un dato oggettivo molto grave, su cui ho già insistito nell’introduzione: le stragi, al termine di lunghe e ingarbugliatissime vicende giudiziarie, sono rimaste del tutto o in larga parte impunite. La mancata identificazione di molti degli esecutori e della quasi totalità dei mandanti ha generato amari giochi di parole, fioriti in particolare attorno alla strage del 12 dicembre, da «chi è Stato?» a «nessuno è Stato», come nel titolo del volume autobiografico di Fortunato Zinni, un bancario e sindacalista sopravvissuto alla bomba, che ha speso anni nelle aule di tribunale in qualità di parte civile.
Il cammino della giustizia è stato a tal punto accidentato che ci sono procedimenti giudiziari ancora aperti, sia per la strage di Brescia, sia per quella di Bologna, per cui queste vicende restano forzatamente sospese nel limbo tra cronaca e storia. Inoltre, gli iter processuali sono così lunghi e complicati che è molto facile perdere il filo. Per questo, anche quando sono ormai conclusi, molte persone non si ricordano come è andata a finire, oppure non l’hanno proprio capito – complice il fatto che il gergo tecnico del diritto e le sottigliezze della procedura penale sono scarsamente comprensibili anche ai più volenterosi tra i non addetti ai lavori (…).
Da tutti gli elementi che conosciamo, si ricavano alcuni dati fondamentali per intendere la stagione stragista. Primo, i depistaggi sono stati sistematici e sono alla radice delle vaste sacche d’impunità; i terroristi, che di solito attaccano lo Stato, nel caso dello stragismo avevano evidentemente addentellati dentro lo Stato, che fornirono loro protezione dalle indagini. Questo stragismo con coperture istituzionali è una tragica specificità italiana, nulla del genere si è dato nelle altre democrazie occidentali.
Secondo, i depistaggi sistematici ci dicono che questi delitti rientrano con ogni evidenza in un disegno più grande. Le protezioni si spiegano col fatto che le bombe – anche a prescindere dalle intenzioni e dagli obiettivi degli attentatori, come vedremo – si prestano a essere strumentalizzate a fini politici. Il terrore genera confusione e paura, spinge le persone a stringersi intorno al governo in carica e, in generale, è particolarmente adatto a produrre un contraccolpo in senso conservatore: le persone spaventate chiedono innanzitutto ordine e sicurezza,lasciando da parte le altre battaglie e rivendicazioni politiche. In Italia, in particolare, lo stragismo s’iscrive nel quadro della Guerra fredda: fu uno degli strumenti usati per arginare lo scivolamento a sinistra dell’asse politico e sociale del Paese.
Terzo, per quanto profonda sia la ferita dell’impunit à, in questo quadro acquistano un’evidenza e un valore ancora più grande le condanne ai depistatori e, più in generale, tutti i pezzi di verità strappati al caos delle pervicaci coperture istituzionali, frutto di decenni di sforzi di moltissimi fedeli servitori dello Stato.
L’altra costante che balza agli occhi è la matrice “nera”, acclarata per tutti gli attentati. Tranne il sedicente anarchico Bertoli, tutti gli altri condannati hanno sempre rivendicato la propria appartenenza all’estrema destra. A parte Vinciguerra e il collaboratore di giustizia Digilio, però, nessuno di loro ha mai ammesso la propria responsabilità. La strage, come vedremo, è un reato che non si confessa, e il più delle volte nemmeno si rivendica. Le poche condanne passate in giudicato infatti sono tutte più o meno aspramente contestate, sia dai diretti interessati, sia dai loro ambienti politici e culturali di riferimento.
All’interno della galassia eversiva di estrema destra, Ordine Nuovo si configura come attore protagonista nelle vicende stragiste: appartengono a quest’organizzazione i responsabili accertati di piazza Fontana, Peteano, piazza Loggia; a Ordine Nuovo è ascritta la regia della bomba alla Questura di Milano. Il processo a carico di Cavallini per la strage di Bologna, inoltre, ha contribuito a rendere più evidente il lungo filo nero che collega la vecchia guardia degli ordinovisti veneti alle nuove leve dei Nar. Cavallini era stato «forgiato militarmente» – come si diceva in quell’ambiente – da Massimiliano Fachini (stretto collaboratore di Franco Freda, a lungo indagato e poi assolto sia per piazza Fontana, sia per la strage del 2 agosto); inoltre aveva comprato molte volte armi da Digilio.
Ordine Nuovo, dunque, dovrebbe essere ormai un nome indissolubilmente associato allo stragismo, nella memoria collettiva, e avere una trista fama paragonabile a quella delle Brigate Rosse, ma non è così. Provare per credere. Davanti a una sala piena di persone che non siano specialiste di questi argomenti, ragazzi o adulti, provate a chiedere, per alzata di mano, chi abbia mai sentito parlare di Ordine Nuovo (Ordine chi? No, non la rivista di Gramsci!). Il deserto o quasi. Ancora meno sanno cosa abbia a che vedere con le stragi (qualcuno potrebbe pure arrabbiarsi, a sentir tracciare il collegamento, ma su questo ci torniamo). Se domandate invece chi abbia almeno sentito nominare le Brigate Rosse, selva di braccia che si sollevano. Un’asimmetria che genera una durevole, pericolosa confusione.