Corriere della Sera, 3 maggio 2024
Intervista a Zendaya
C’era perfino la Barbie Zendaya. L’ex principessa delle teen-agers è una star globale dal viso rimasto adolescente. Zendaya Maree Stoermer Coleman, in arte Zendaya, è nata 28 anni fa a Oakland. Vitino da clessidra, gambe da gazzella (è alta un metro e 78) che mostra in tutta la loro bellezza nel film del momento, Challengers, dove interpreta una più che promettente campionessa di tennis che deve lasciare i tornei per un infortunio e trasforma la sua vita in un eterno break point tra due atleti della racchetta, diventando manager, allenatrice e moglie di uno dei due, senza dimenticare l’altro. Mai era apparsa così avvolta da sensualità e sex appeal.
In Challengers, Luca Guadagnino per la prima volta è numero 1 al box office sia in Italia che negli Stati Uniti. Zendaya va avanti alla velocità di un dritto di Sinner. Attrice, produttrice, cantante, ballerina, modella, attivista contro il razzismo, influencer su Instagram: in un istante può raggiungere 185 milioni di followers. «Malgrado gli aspetti negativi, i social ti spingono a non ignorare i problemi degli altri». Sente la responsabilità di tutto questo addosso: «Ma non voglio farmi intimidire, cerco di vederla in positivo».
È la diva simbolo della generazione Z, quella col cellulare in mano. Z come Zendaya, lei ha sempre saputo cosa voleva fare della propria vita.
Nata alla corte di Minnie, Zendaya è stata scoperta da Disney Channel, che da adolescente la arruolò nella sit com A tutto ritmo, il titolo sembra la sintesi della sua vita. Sette anni fa era in Spider-Man (sta ancora con l’uomo ragno Tom Holland, e si parla di nozze). Poi Dune di Villeneuve, presentato a Venezia (sul red carpet ha sfoggiato un abito nude – acronimo del titolo – color sabbia). Un fantasy dove è la guerriera di un popolo oppresso. Nella serie Euphoria ha vinto un Emmy come giovane drogata, sganciandosi dall’edulcorata immagine disneyana: «Mi ha costretto a uscire dalla comfort zone».
Figlia di due insegnanti, è cresciuta «tra gente che riconosce l’importanza dell’educazione. C’era sempre qualche storia di coetanei di successo finiti male». Non è inciampata come altre precoci stelline disneyane che hanno abbracciato la sregolatezza perdendo il genio, da Britney Spears a Lindsay Lohan. Il padre, l’afro-americano Kazembe, da piccola l’accompagnava alle audizioni a Los Angeles, mentre mamma Claire, di origini tedesche e scozzesi, aveva due lavori per aiutare la famiglia. Poi i genitori si sono separati. Il padre aveva già altri cinque figli da un precedente matrimonio, ma sono argomenti tabù.
Challengers è il suo vero ingresso nel cinema d’autore. Non sbaglia un colpo: «Amo quello che faccio, senza alcune iconiche donne nere, oggi non sarei qui. Subisco molte pressioni, ci sono abituata avendo cominciato giovanissima, però ho il terrore di rovinare tutto. Ci sono cose che alle mie colleghe bianche verrebbero perdonate, e a me no». Ha detto che quello che l’ha resa felice, «dando un senso al mio lavoro, sono state le mail delle ragazze che si sono riconosciute nei temi di Euphoria, la dipendenza, il dolore, la lotta contro il senso di perdita. Sapere che alcune di loro sono riuscite a guarire, imparando dagli errori del passato, dà uno scopo a quello che faccio».
Cos’è il successo per Zendaya? «La possibilità di essere felice e in pace con me stessa». Nel 2013 ha scritto un paperbook, Between U and Me, dove dispensa consigli motivazionali su amicizia e sogni.
Prima di Challengers, la sua conoscenza del tennis non andava oltre Serena e Venus Williams. Per sei mesi ha preso lezioni, fino a cinque ore al giorno, e nelle scene con la racchetta in mano è credibile. Non sbaglia una battuta. «La persona che mi ha più influenzata è mia madre, che incarna l’opposto del glamour».
Alla notte degli Oscar del 2015, Giuliana Rancic, una conduttrice tv, se la prese col suo taglio di capelli, che avrebbero l’odore di «olio di patchouli» e di «erba». Zendaya su Instagram le rispose che la sua pettinatura «non ha nulla a che vedere con le droghe, c’è una linea sottile tra l’essere divertenti e irrispettosi». Il suo nome, nella lingua bantu originaria del popolo Shona dello Zimbabwe, significa ringraziare.